Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

1/25/2007

Microeconomie modernità e ricchezza (di Carlo Petrini)

Anticipiamo l’editoriale di Slowfood 24, del Presidente Internazionale di Slow Food.

Una delle parole più utilizzate ultimamente in quello che potremmo definire il “mondo slow” è senza dubbio rete. Abbiamo sempre descritto Terra Madre rifacendoci a questa immagine e lavoriamo per renderla tale anche in termini operativi, cercando di concepire e fornire i giusti servizi, per moltiplicare tutte le potenzialità che offrono le comunità del cibo con le loro interazioni. In questo contesto, ça va sans dire, sono pienamente inserite tutte le altre realtà di Slow Food, che si pone dunque come “facilitatore”, ma che con Presìdi, convivium, ristoranti e chiunque vi sia coinvolto a vario titolo gioca di fatto un ruolo attivo nel generare linfa.
Dopo l’esperienza memorabile di Torino dello scorso ottobre però, il senso, la profondità e la complessità dei nostri pensieri e intendimenti si sono ulteriormente arricchiti. Il significato della parola rete per la gente di Terra Madre si rinnova nel segno di un altro importante convincimento. Questa volta parliamo di economia, di un cambiamento, probabilmente già in atto nel mondo, che Terra Madre ha saputo intercettare – o di cui è di fatto promotrice? – visto che gli attori principali sono i protagonisti stessi delle comunità del cibo. Mi riferisco a una nuova idea di economia, che parte da quella agricola e mette al centro le comunità locali, il loro cibo e il territorio.
L’economia di mercato, così come la conosciamo e per come si è imposta anche per via delle dinamiche della globalizzazione, sta palesando i suoi limiti. Sia dal punto di vista della sostenibilità delle sue attività sia per quanto riguarda il suo modo di generare ricchezza.
Non sono soltanto più i detrattori del sistema capitalista a sostenere quanto l’economia mondiale sia un gigante che poggia su piedi di argilla. I maggiori esponenti di questo mondo sono consci del fatto che antiecologia collimi sempre di più con antieconomia. In un quadro di questo tipo, le cui cause sono anche da rintracciare nei cambiamenti che ha subìto il sistema agricolo mondiale, nell’industrializzazione, nonché nella centralizzazione dei sistemi produttivi agroalimentari, le comunità del cibo rappresentano un esempio di cosa significhino espressioni come “economia locale” o “economia della natura”.
Le comunità del cibo generalmente attuano la filiera corta o filiere lunghe altamente sostenibili e comunque basate sulla reciproca conoscenza dei soggetti coinvolti. Portiamo ad esempio di alcune esperienze con cui abbiamo collaborato i rinati mercati contadini italiani (Mercatale a Montevarchi) o in Africa (a Bamako, per mano di Aminata Traoré), i farmers’ markets americani, la community supported agriculture, le Amap francesi.
Le comunità poi, territoriali per definizione, non possono esimersi dal conservare, dal promuovere e far fruttare in maniera armonica i loro ecosistemi, i loro paesaggi, la loro biodiversità. In più possiamo dire, in seguito all’esperienza dei Presìdi e in virtù della conoscenza diretta di molti partecipanti a Terra Madre, che queste sorta di microeconomie funzionano, o hanno tutte le carte in regola per farlo. Non stiamo parlando di economie chiuse, autarchiche o eccessivamente conservatrici. Il significato che questi modelli assumono nel contesto di una rete che si serve anche delle più moderne tecnologie, dà all’insieme un valore inedito e, mi spingo anche a dire, un potere di cui non c’è ancora piena consapevolezza.
In sostanza si sta dimostrando che, a dispetto di ciò che sostengono i critici, queste esperienze non sono un mero tentativo di tornare al passato e di rinnegare in maniera sterile il sistema attuale, ma sono un esempio di come rispettando la terra, se stessi, la propria cultura, le diversità e la centralità del cibo, si possa fare economia in un modo nuovo, sostenibile e, per di più, praticabile in contesti molto differenti, tanto nel Nord come nel Sud del mondo. Tanto in contesti rurali quanto in contesti urbani.
Un altro fondamentale punto di forza di questo modello economico è che si basa sulle comunità, su un’idea di comunità che va recuperata e intesa non soltanto come nucleo in cui sviluppare i processi o come nodo della rete. La comunità è un modo per rinsaldare il rapporto con il territorio, ma anche fra tutti coloro che lo abitano. Essa ha cura di se stessa, dei propri componenti tanto quanto del luogo in cui vive. Valori che rischiano di sparire nella nostra società frenetica diventano, invece, i capisaldi della nostra esistenza: solidarietà, generosità, apertura agli altri e alle diversità. In questo quadro l’orgoglio di essere contadini, di produrre bene, assume nuovi contorni e nuovi significati. Lo stesso si può dire per chi abita in contesti urbani, dove un consumo da veri coproduttori provoca gli stessi sentimenti e un coinvolgimento forte rispetto alle vite di chi lavora la terra.
Dopo Terra Madre siamo ancora più convinti di poter intravedere nel lavoro che portano avanti le comunità del cibo i semi di una nuova modernità, di una nuova era economica. L’economia della natura per l’appunto, in cui alla “grande mano invisibile del mercato” si sostituisce la benevola, ma severa, mano di madre Terra. La quale necessita rispetto, poiché sa dare frutti incredibili che migliorano la qualità delle nostre vite.

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1/17/2007

Le voci di Terra Madre

Sono passati ben due mesi e mezzo, ma gli occhi trattengono vivide le immagini delle assemblee plenarie di Terra Madre e il ribollente catino del Salone del Gusto. Nelle orecchie riecheggiano le parole dei contadini, dei filosofi, dei cuochi, degli agronomi, dei politici che si sono alternati sul palco dell’Oval e la lingua rimpiange i gusti dei Presìdi, i tannini dell’enoteca, soprattutto l’opportunità di avere tutto quel mondo enogastronomico concentrato negli stessi giorni nei padiglioni del Lingotto: biodiversità che lascia l’astrazione dei discorsi di monito e si fa pietanza, degustazione, borsa della spesa.
Sono passati ben due mesi e mezzo e dunque è tempo di riannodare, riflettere, ricordare. Su Slowfood 24 (in uscita il 25 febbraio), si parte con qualche eco delle voci dietro ai microfoni dei laboratori, delle conferenze e delle assemblee, e poi si lascia spazio alle penne dei nostri quattro “inviati speciali” a Torino: Poppy Burak a colloquio con i delegati di Tagikistan, Afghanistan Georgia, Ossezia, Abkhazia e poi Elena Giovanelli, storica firma della nostra rivista, per l’occasione “volontaria di Terra Madre” assegnata alla comunità delle donne del Mali. Ancora, John Irving invischiato a dipanare le lacune gastro-culturali dei suoi compatrioti e poi a brindare con giornalisti, scrittori e chef nel caffè letterario del Salone e, infine, Nereo Pederzolli, a degustare sulla pista del Lingotto i mitici Tre Bicchieri.
In anteprima, su questo blog, le principali dichiarazioni dei protagonisti.


«Il Manifesto sui semi è primo documento ufficiale della Repubblica dei contadini di Terra Madre e alternativa alla falsa democrazia di Washington. Il modo d’agire delle multinazionali del seme è fascismo del cibo, attuato con la complicità del Wto e della Banca Mondiale. Nel mio paese ogni anno ci sono 120 000 suicidi di contadini indebitati con la Monsanto e altre holding agricole. Nessuno se ne cura, perché il profitto è diventato più importante della stessa vita umana. In agricoltura manca la libertà di distribuire gratuitamente le sementi. Si ha paura dei piccoli e decentrati produttori, che vengono annientati con assurdi brevetti e licenze. Terra Madre è lo strumento per evadere dalle prigioni del cibo, esaltando la biodiversità e rispettando tutte le culture; qui inizia la rivoluzione agricola, senza ibridi, rispettando la natura e il lavoro».
Vandana Shiva, fisica ed economista, India
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«Questa manifestazione ha permesso a noi cuochi di entrare in contatto con realtà che dalle nostre cucine non possiamo conoscere e apprezzare. Ormai siamo diventati uomini di spettacolo e nelle nostre apparizioni televisive dovremo diffondere lo spirito di Terra Madre. E poi dobbiamo aiutare i produttori: è paradossale che siano costretti a esportare i loro prodotti perché non vengono inseriti nei menù dei ristoranti locali. L’alimentazione oggi è gravemente malata, manca l’educazione e il risultato è l’allarmante obesità infantile: il modello occidentale è perdente, perché non pone al centro la cura dell’uomo, ma quella del denaro. Non omologatevi a noi, ma siate orgogliosi delle vostre diversità».
Ferran Adrià, cuoco, Spagna
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«Basta alle ipocrisie dei falsi difensori dei terroir, che credono il consumatore un ignorante. Il futuro è nel “commercio equo”, cioè bilanciato secondo le esigenze di chi compra e di chi produce e nella qualità etica, rispettando le tradizioni e i saperi che il vino nasconde».
Marc Parcé, vigneron, Francia
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«È emozionante pensare che il seme piantato a Terra Madre 2004 sia oggi germogliato, grazie alle cure di docenti e cuochi che condividono i nostri ideali. Ora all’appello mancano soltanto i governanti, con i quali discuteremo durante il forum mondiale di gennaio in Kenya a nome di tutta la grande famiglia Terra Madre».
Samuel Karanjia Muhunyu, Coordinatore Terra Madre e leader del primo convivium Slow Food in Kenya
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«I cuochi nel Medioevo erano tra le figure più rispettate della corte, poi il nostro è diventato un mestiere per poveri migranti, fino all’avvento dei francesi, considerati i numi tutelari della cucina. Grazie a loro ci siamo resi conto della nostra importanza, però oggi occorre compiere un ulteriore passo in avanti diventando ecochef, persone interessate non solo alla tecnica, ma anche alla cultura del cibo».
Teresa Corçao, cuoca, Brasile
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«Non sono né la terra di origine né la lingua né la politica né la religione a radunarci. Cos’è che ha spinto ognuno di noi da un angolo del pianeta a ritrovarsi qui, oggi? … In questa magnifica assemblea io non vedo sacchi, bottiglie e vasi, ma esseri umani, uomini e donne, demiurghi straordinari che partecipano al processo della creazione, che rendono possibile l’atto dello sfamarsi e del dissetarsi».
Kamal Mouzawak, giornalista e fondatore di Suk el-Tayeb, Libano
Cerimonia di apertura di Terra Madre, 26 ottobre 2006

«Quando tornai a casa dopo la prima edizione di Terra Madre a chi mi chiedeva quale fosse stata l’essenza di quell’esperienza rispondevo di avere percepito in modo evidente la mia appartenenza a qualcosa di importante e di nuovo: una controcultura globale, un pensiero in opposizione dinamica a valori codificati. Perché i nostri valori non sono gli stessi di quelli promossi dai nostri governi; e i nostri governi non stanno rispondendo ai bisogni reali dei loro cittadini … È perciò che ritengo che la cosa di cui maggiormente necessitiamo sia un’educazione pubblica universale in ecogastronomia, affinché tutti i nostri figli comprendano i valori essenziali a vivere su questo pianeta: come prendersi cura della terra e come cucinare il cibo in modo semplice».
Alice Waters, cuoca e vicepresidente di Slow Food Internazionale, Usa
Cerimonia di apertura di Terra Madre, 26 ottobre 2006

«Guardandovi io vedo la meravigliosa diversità della gente ma anche l’altrettanto meravigliosa diversità delle specie che voi rappresentate – le piante e gli animali di cui vi prendete cura e che difendete. Poiché gli agricoltori, i pastori, i raccoglitori, i pescatori e gli apicoltori radunati in questa sala formano una sorta di corpo rappresentativo, un parlamento mondiale delle specie … Voi, contadini, siete in prima linea nella lotta per la difesa dei molti contro l’uno. Voi rappresentate la specificità: la pianta adattata a un dato suolo, l’ingrediente indispensabile a un piatto tradizionale, il sapore indimenticabile che possiamo annoverare tra le meraviglie di questo mondo».
Michael Pollan, Scrittore e giornalista, Usa
Cerimonia di apertura di Terra Madre, 26 ottobre 2006

«Oggi, in campo alimentare, la vera novità, l’innovazione strategica, non sono le biotecnologie o gli ogm. Oggi la vera innovazione è il recupero della naturalità delle coltivazioni e degli alimenti, proprio nell’ambito della globalizzazione. Le biotecnologie e gli ogm sono il vecchio, che macina milioni e miliardi di dollari di profitti, per produrre da una parte il niente, dall’altra un’alimentazione insalubre e pericolosa e, dall’altra ancora, la “iugulante” situazione per cui grazie ai brevetti le popolazioni sono costrette a indebitarsi due volte, dovendo ricomperare le sementi … Dobbiamo combattere per una globalizzazione reale, cioè multipolare, multiculturale, di democrazia deliberativa diffusa, dove le tradizioni, le storie e le intelligenze locali siano realmente capaci di pesare per determinare una strategica parità nell’equilibrio dei piatti della bilancia tra le esistenze».
Mario Capanna, presidente del Consiglio dei diritti genetici, Italia
Conferenza “La libertà alimentare”, 28 ottobre 2006

«In Africa noi abbiamo tante risorse, ma ci rendiamo conto che alcune non sono state utilizzate bene a causa dell’analfabetismo e della mancanza di informazioni. Ci manca il cibo e la gente muore, non perché non ci siano le risorse, ma perché nessuno ha insegnato a quei popoli come mobilizzare tali risorse, usandole a vantaggio della loro famiglia. È mia opinione che tutte le donne debbano frequentare corsi di nutrizione/alimentazione e corsi di formazione. Tante donne in Africa non hanno accesso all’istruzione, di conseguenza, è responsabilità di noi, donne istruite che hanno viaggiato, fornire informazioni spiegando loro che cosa devono fare per migliorarsi».
Christine Lusakia, professoressa, Kenya
Workshop “Le donne e l’agricoltura: conoscenza e divulgazione”, 29 ottobre 2006

«Il cibo per me è soprattutto un incontro. Per me il palato non ha patria. Allora possiamo unire tutte le cucine, tutte le culture, tutti i popoli del palato. Quasta è una funzione importante dei cuochi. Che loro incontrino direttamente chi produce gli alimenti, trasformandoli poi direttamente nei loro ristoranti. Per me i cuochi, oggi, fanno quello che facevano un tempo i filosofi, i quali divulgavano le idee. Oggi i cuochi portano novità alle città, ai paesi, al mondo. Loro scoprono cose nuove e la maniera di cucinarle. Il cuoco trasmette un messaggio fondamentale che è il piacere del cibo.
Francisco Ancillero, Portogallo
Conferenza “Mangiare è un atto agricolo”, 29 ottobre 2006

«Ci sono tre variabili nella cucina: il prodotto, il cuoco e il modello culinario. Oggi c'è la tendenza, da parte di molte cucine, a lavorare mettendo in evidenza solo il prodotto; esistono poi delle cucine in cui il talento del cuoco può manipolare qualsiasi tipo di prodotto, facendone un piatto seducente, che sorprende e ottiene applauso; esiste, infine, un modello culinario, tra i più diffusi, per cui in un ristorante mediterraneo, fusion o piemontese che sia si consuma un modello, senza che ci interessi particolarmente il cuoco e senza neppure conoscerne i prodotti –molti modelli, infatti, non hanno nemmeno prodotti localizzabili. In che misura tali variabili rappresentano scelte autronome del cuoco o in che misura devono integrarsi le une alle altre?».
Alberto Capatti, rettore dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, Italia
Conferenza “Mangiare è un atto agricolo”, 29 ottobre 2006

«I cuochi devono stare insieme agli scrittori, insieme ai filosofi, insieme agli antropologi. Devono ragionare di un vocabolario nuovo, quello delle emozioni. Noi adesso siamo i possessori di un'arma potentissima che schiaccia l’avidità del mondo – l'elemento trasversale che inquina e rattrista la vita di tutti noi – e la possediamo perché siamo possessori di un’emotività sana, un privilegio che dobbiamo essere in grado di comunicare».
Fabio Picchi, cuoco, Italia
Conferenza “Mangiare è un atto agricolo”, 29 ottobre 2006

«La nostra ricchezza non ci porta a un ottimo, ma a sapercela cavare sempre, come esseri viventi, adattandoci alle condizioni più diverse. Nella vita non esiste l'ottimo, un'unica macchina uguale da tutte le parti. Tale affermazione significa che è nostro dovere conservare la biodiversità perché senza di essa si muore tutti. Gli ogm sono un simbolo dell'omogeneizzazione della vita alla quale ora ci stiamo confacendo: ora nel mondo si coltivano 90 milioni di ettari di piante geneticamente modificate che, introdotte nel 1986, non hanno prodotto da allora alcuna novità. L’unica ragione per cui esse sono coltivate sono ragioni economiche di mercato. La nostra ricchezza è la biodiversità culturale, senza la quale perderemmo quelle, indispensabili, dei semi e delle razze animali».
Marcello Buratti, genetista e biologo, Italia
Conferenza “Facciamo cose buone”, 27 ottobre 2006

«Il nostro Paese è orgoglioso di accogliere Terra Madre. Questa grande assemblea dimostra che c’è un modo diverso di interpretare e di vivere il mondo globale. Vandana Shiva ha detto: ”… we are creating another world …”: è così, è possibile vivere il mondo globale in modo diverso rispetto alle rituali occasioni in cui si incontrano i governi e le rappresentanze dei continenti e dei paesi. In una grande assemblea come questa si mettono in comunicazione civiltà, culture e storie, in una sintesi che non è solo un’alleanza di produttori, ma è una coalizione di contadini, di cuochi, di ricercatori, di intellettuali.
Quello che si costituisce con la vostra azione è un legame fraterno, fatto di relazioni umane che mettono insieme natura, lavoro, cultura e che hanno come fine la difesa della qualità della vita umana.
Vedete, quando nacque Slow Food, sembrò a qualcuno una reazione aristocratica della vecchia Europa conservatrice contro le proteine per tutti della democrazia fast food, sembrò un movimento elitario: non era così, in quella immagine c’erano due menzogne: la prima menzogna è l’idea che l’omologazione sia sinonimo di democrazia. Non è così: l’omologazione è sinonimo di totalitarismo. La seconda menzogna stava nell’idea sbagliata del progresso: non c’è progresso senza memoria, cultura, civiltà, diversità che sono sinonimi di libertà. Noi siamo perché vinca il multilateralismo, per la costruzione di un equilibrio di pace, di un mondo in cui ciascuno possa sentirsi a casa propria. E allora “buono, pulito e giusto” non è soltanto un criterio ragionevole per decidere che cosa si deve mangiare, ma può anche essere uno slogan efficace per costruire un ordine mondiale diverso e per orientare la politica di un grande paese come l’Italia».
Massimo d’Alema, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri, Italia
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«Vengo dal Tagikistan e conosco bene la realtà dell’Afghanistan perché nel 1968 facevo parte di una delegazione culturale, mentre durante la guerra civile ero ambasciatore di pace in questo paese. Questo territorio, dove la terra e l’acqua sempre sono stati due elementi sacri, è famoso per il fatto che l’agricoltura è una vera e propria religione. La guerra è responsabile per quello che è successo in Afghanistan … Purtroppo oggigiorno questa terra, una volta fertile e sacra, è la maggiore produttrice di oppio, il che è sinonimo di morte per la popolazione locale. La morte viene da questa terra devastata e in rovina. Ci vogliono decenni per ristrutturare il paese. Sono convinto che la popolazione afghana abbia bisogno di più tempo, almeno di 100 anni, per tornare alla vita pacifica. Cibo buono e salutare è il simbolo di cultura sviluppata e agricoltura significa civiltà. La gente lavora la terra e il cibo è il coronamento dei loro sforzi e di tutto il processo agricolo. La pace, la pace e solo la pace può regalare la felicità alle persone. Qualsiasi tipo di guerra, conflitto o conflagrazione è contro la natura del genere umano civilizzato».
Davlat Khudonazarov, regista, Tagikistan
Conferenza “Cibo è pace”, 29 ottobre 2006

«Siamo a Torino non solo per ribadire il nostro no agli ogm, ma anche per conoscerci e scambiarci esperienze: siamo tutti fratelli, che vogliono diventare paladini della biodiversità e dell’ecologia».
Moises Quispe Quispe, presidente dell’Anpe (Asociación Nacional de Productores Ecológicos), Perù
Cerimonia di apertura di Terra Madre, 26 ottobre 2006

«Noi siamo l’esempio di come la volontà e la semplicità riescano a vincere anche in una terra senza risorse come la Bielorussia. Noi contadini dobbiamo diventare i difensori della biodiversità contro l’arroganza delle multinazionali, sempre con lentezza, come ci insegna Slow Food. Produttori di tutto il mondo unitevi!».
Ihar Danilau, coordinatore di Slow Food Bielorussia
Cerimonia di apertura di Terra Madre, 26 ottobre 2006

«I tre concetti fondamentali per un mondo dove economia, giustizia sociale, tutela ambientale e democrazia si possono incontrare e che dovrebbero essere i cardini di una nuova cooperazione internazionale sono quelli di “comunità locali”, “sovranità alimentare”, “saperi e sapori”. Il primo concetto ci parla di valorizzazione delle economie locali anche, perché ci insegna che noi non possiamo più esportare modelli neocoloniali di puro assistenzialismo … Il secondo è necessario per contrastare l’idea di sviluppo basato sulla dissipazione delle risorse ambientali e sull’omologazione delle culture, che ha reso dipendenti milioni di persone dalla lunga filiera delle multinazionali, cancellando tradizioni e autonomie. Il ciclo corto consente, invece, un fecondo scambio tra saperi tradizionali scientifici e, oltre a esaltare la dignità di pescatori e contadini che operano ancora in larga parte del mondo, favorisce la preservazione della biodiversità e della salute del pianeta. Infine i “saperi e sapori”, tutto ciò ci parla di buono e di gusto, e con i sapori si preservano le specifiche identità, e pertanto i beni cumuni: la terra., l’acqua, le energie.
Dobbiamo essere capaci di uscire dalla trappola della crescita illimitata, degli allevamenti intensivi, dai brevetti della genetica, dal monopolio delle sementi. Qui con semplicità, ma anche con convinzione, Terra madre dimostra che si può. E anche come governi dobbiamo farci attraversare da queste pratiche e produrre una nuova politica, di cooperazione anziché di competizione».
Patrizia Sentinelli, viceministro degli Affari Esteri con delega alla Cooperazione Internazionale, Italia
Cerimonia di apertura di Terra Madre, 26 ottobre 2006

«La gastronomia è strettamente correlata con il piacere che deriva dall'esperienza di gustare e assaporare il cibo. Ma è anche un'esperienza di cultura, oltre che un'esperienza che ha a che vedere con il gusto. La cosa straordinaria della gastronomia è il connubio tra aspetti molto differenti della vita umana».
Harold McGee, chimico molecolare ed esperto di gastronomia, Regno Unito
Conferenza “Facciamo cose buone”, 29 ottobre 2006

«Il concetto di sicurezza alimentare indica che tutti abbiamo il diritto di mangiare, mentre quello di sovranità alimentare sta a significare che ciascuno di noi può dedicarsi alle coltivazioni proprie della sua cultura. Questa ricchezza, in molti casi, si sta perdendo. Io penso che un'agricoltura sostenibile, un prodotto di qualità e un consumatore informato siano i tre elementi importanti per garantire un processo di sostenibilità e il riscatto della biodiversità».
Manrique Lopez Castillo, responsabile del Presidio del caffè di Huehuetenango e responsabile di Slow Food Guatemala
Conferenza “Facciamo cose buone”, 29 ottobre 2006

«Questo incontro si svolge a Torino, in un luogo chiamato Lingotto, un tempo cattedrale dello sviluppo fordista e taylorista, che ha avuto in questa città una storia importante. Voi siete qui ora a ricordarci che tutti noi, però, veniamo da radici più lontane, dalle radici delle terre degli avi e dei contadini, e questa cultura e questa memoria oggi sono preziose.
Noi tutti viviamo in una nuova era dello sviluppo capitalistico che si chiama globalizzazione. Una grande e gigantesca riorganizzazione dell’economia mondiale e dei suoi protagonisti. Si è parlato molto dei caratteri di questa rivoluzione ma noi abbiamo il dovere di avere imparato che questa riorganizzazione dell’economia mondiale non è solo scienza e non è solo innovazione, è anche riorganizzazione del potere. E oggi questo gigantesco processo è governato da grandi poteri economici che non hanno alcun interesse a considerare come vitali gli interessi di tanta parte della popolazione mondiale. Così, quella che potrebbe essere una grande opportunità, continua a essere anche dolore e sfruttamento. Così, invece di ridursi, la povertà aumenta nel mondo e aumentano le disuguaglianze, e questo sviluppo mette in conto anche la distruzione della natura … Noi dobbiamo fare sì che non ci sia nulla che valga di più della vita umana… Perché questo possa accadere noi dobbiamo raccogliere il vostro appello. Ricominciamo dal cibo, dal nostro rapporto con la natura. Per attraversare con questo tutto il tema dello sviluppo della partecipazione, della democrazia. Per restituire al termine solenne e antico di alleanza, il suo significato nobile, per fondare l’alleanza su comunità scelte e liberate. Per tornare a fare dell’esperienza delle persone il fondamento dell’organizzazione dell’economia e della società. La cultura del fare. Il saper fare.
Vorrei dirvi che anche la democrazia e anche la politica – come il cibo – devono lottare contro le sofisticazioni. Le sofisticazioni con il cibo possono nuocere alla salute delle persone, le sofisticazioni nella politica fanno male alla democrazia. Ripartire dal cibo, ripartire da chi compie ogni giorno la sua esperienza di vita, è una promessa per il futuro di tutti. Anche per la politica e per le istituzioni democratiche».
Fausto Bertinotti, presidente della Camera dei deputati, Italia
Cerimonia di chiusura di Terra Madre, 30 ottobre 2006

«Siamo molto soddisfatti per come stanno andando il Salone del Gusto e Terra Madre. Le due manifestazioni spingono alla riflessione, alla conoscenza di luoghi e culture diverse. Quindi non è solo un evento mangereccio, e neanche il mercato della convenienza o delle grandi abbuffate. Nelle prossime edizioni allargheremo gli spazi, vista la densità dei visitatori di quest’anno, creando un padiglione in più che colleghi Lingotto e Oval. Intensificheremo i rapporti tra istituzioni e produttori, per facilitarli sempre più a partecipare. Magari faremo anche una suddivisione dei prodotti seguendo il criterio di provenienza geografica, anziché quello della suddivisione merceologica».
Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, Italia
Conferenza stampa al Salone del Gusto, 29 ottobre 2006

«Grazie alla loro esperienza e passione, gli amici di Slow Food hanno lavorato per dare un’alternativa all’omologazione dei prodotti, dei gusti e dei sapori in atto nella società contemporanea. Ma non solo. Hanno saputo far riflettere sulla necessità della cura per la qualità del cibo e dell’ambiente dove viene prodotto, della difesa della dignità di chi nel cibo lavora, con particolare attenzione ai paesi considerati “a sud del mondo”».
Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, Italia
Tratto da La Stampa, 25 ottobre 2006

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1/11/2007

In arrivo importanti novità

Seguiremo passo a passo, nelle prossime settimane, l’evoluzione della rivista Slowfood: che dal numero 24 cambia faccia e s’arricchisce, si movimenta e s’allarga a nuovi spunti, racconta cibi islamici e una comunità del cibo giapponese in visita ai campi di porri di Cervere, intervista Roy Paci che confessa la sua devozione al peperoncino e sciorina le locande siciliane in un rilassante itinerario invernale, degusta il Carignano del Sulcis e pubblica i reportage dei nostri "inviati speciali" all'Oval e al Lingotto.

Nuova grafica, nuove suggestioni, nuove firme e nuove matite a illustrarla.
Nelle buche delle lettere dei soci italiani di Slow Food a partire dal 25 febbraio o, se si vuole, su queste lande virtuali, a partire dal prossimo post.

Alessandro Monchiero

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1/10/2007

Gli anni del fermento (di Luca Giaccone)

Un articolo della sezione A TUTTA BIRRA di Slowfood 23, che trovate qui.


L’Italia non ha mai avuto una grande tradizione birraria: soltanto il nord del paese ha subìto qualche influenza dall’impero austro-ungarico, con la presenza di un discreto numero di birrifici, ormai quasi tutti chiusi. Con i suoi 29,6 litri di consumo annuo pro capite l’Italia occupa l’ultimo posto della classifica europea, surclassata dai 160 litri della Repubblica Ceca, dai 115 della Germania o dai 93 del Belgio, ma superata anche, e di parecchio, dai 40 della Grecia, dai 61,7 del Portogallo e dagli 80,6 della Spagna, paesi mediterranei come il nostro (dati 2004, fonte Assobirra).
Al di là dei numeri, però, il vero problema italiano è sempre stato in un’enorme lacuna culturale: la birra è sempre stata vista secondo il triste luogo comune che la indentifica con una bevanda bionda, leggermente amarognola e abbondantemente gasata, da servire preferibilmente ghiacciata. Fino ad una decina di anni fa, nemmeno si immaginava qualcosa di diverso. I pochi birrifici industriali attivi si sono quindi adeguati a questo cliché (o, forse, ne sono stati causa) producendo soltanto lager (birre a bassa fermentazione) decisamente anonime. Fanno parziale eccezione la Pedavena, in provincia di Belluno, la Menabrea di Biella e soprattutto la Forst di Lagundo, vicino a Merano, che ha sempre messo la qualità dei suoi prodotti al primo posto (ad esempio, tutte le birre in fusto non sono pastorizzate); ma rimangono purtroppo casi isolati nello sconfortante panorama industriale italiano.

Molto è cambiato
Tutto questo è stato fino a 10 anni fa, quando è esploso il fenomeno dei birrifici artigianali; precedentemente c’erano state alcune esperienze, ma si trattava di casi assai isolati: citiamo St. Josef di Corrado Esposito, aperto a Sorrento nel 1983, Birra Dolomiti (ora Montevecchio) di Adis Scopel, attivo dal 1993 in Sardegna, Orabräu (chiuso nel 1994) dei fratelli Oradini ad Arco, sul lago di Garda, Aramini (chiuso nel 1996) a Vaglio Serra, in provincia di Asti. Dopo il 1996, invece, la crescita numerica dei birrifici diventa sempre più importante, grazie anche a un cambiamento normativo, con la pubblicazione di un «Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative» (D.L. 26 ottobre 1995, n. 504), che elimina l’obbligo della presenza di un funzionario dell’Ufficio tecnico finanza a ogni produzione e la pratica di piombatura dell’impianto dopo ogni cotta. In realtà ancora oggi l’iter burocratico che i birrai devono affrontare è complesso, illogico e dal sapore vagamente medievale.
Nel giro di pochi mesi, tra il 1995 e il 1996 nascono, senza conoscersi tra loro, diversi birrifici, quasi tutti ancora oggi attivi: Baladin a Piozzo (Cn), Beba a Villar Perosa (To), Befed ad Aviano (Pn), Birrificio italiano a Lurago Marinone (Co), Busalla a Savignone (Ge), Centrale della birra a Cremona, Circolo 50 a Campi Bisenzio (Fi), Lambrate a Milano, Greiter a Merano (Bz), Mastro birraio a San Giovanni al Natisone (Ud), Norton a Rimini, St. Johannes Brau a San Giovanni di Casarsa (Pn), Titanic a Lamezia Terme (Cz), Turbacci a Roma. I nuovi mastri birrai si conoscono spesso per caso, ad esempio attraverso gli stessi fornitori di materie prime e attrezzature: basterà attendere il 1997 per vedere nascere Unionbirrai, associazione di categoria che ha fatto molto, in questi anni, per promuovere la cultura della birra artigianale.
In 10 anni moltissimo è cambiato, sia quantitativamente sia qualitativamente e si è abbondantemente superato il numero di 150 birrifici (ottimamente recensiti da Lelio Bottero, nel suo La birra artigianale, guida ai microbirrifici italiani, Gribaudo, 2005). Purtroppo, a un così notevole incremento numerico non è seguita, almeno non per tutti, un’analoga crescita qualitativa; rimangono molti i birrifici che hanno fiutato il business e non hanno messo la passione e la conoscenza della birra al centro dell’attenzione. Sono ancora troppi, infatti, i birrifici artigianali in cui le birre sono presentate male, servite troppo fredde o non in condizioni accettabili: ho visto personalmente un brew pub presentare le birre sul menù come “bionda”, “rossa”, “nera”, senza alcuna altra indicazione (c’era, però, il prezzo…), nemmeno i gradi alcolici! È vero che, in ogni caso, si tratta di birre non pastorizzate, vive, prodotte in loco, ma credo che la scarsa professionalità sia un danno per tutto il movimento: trovo decisamente controproducente che un artigiano che dedica fatica, tempo e denaro alla sua attività non sia poi in grado di servire, nel modo più corretto possibile, un prodotto che sia organoletticamente valido.
Per fortuna, però, la maggior parte dei birrai lavora con sapienza e passione e oggi abbiamo molte birre davvero interessanti; il fenomeno è ormai esploso e alcuni dei nostri birrai più capaci esportano regolarmente all’estero, negli Stati Uniti, in Russia, in Giappone. Nell’ultima edizione del Great British Beer Festival (la più importante manifestazione birraria del Regno Unito) sono state presentate ben otto birre artigianali italiane, che nonostante il prezzo proibitivo di sette sterline a bottiglia, sono andate a ruba: i giornalisti e gli esperti hanno capito che il fenomeno italiano va seguìto con molta attenzione e sono colpiti dalla bravura e dalla fantasia dei nostri birrai.

Vince la fantasia
Proprio la fantasia è il punto centrale, la nostra carta vincente. Come si diceva, l’Italia non ha mai avuto una grande cultura della birra, con due conseguenti effetti, del tutto opposti. Da un lato i primi birrai si sono ritrovati a muoversi in assenza di informazioni e con un mercato poco ricettivo. Dall’altro lato, però, questa “verginità” ha presentato molti aspetti positivi: intanto la curiosità che ogni nuovo birrificio artigianale solleva e poi la mancanza del riferimento oppressivo di tradizioni secolari, proprie dei paesi di grande tradizione birraria; mentre in Baviera un birraio non può non produrre gli stili tradizionali (hell, pils, bock, weizen…), il birraio italiano è molto più libero di inventare e può proporre birre decisamente più originali. In effetti in una prima fase quasi tutti i birrai si sono ispirati, più o meno direttamente, agli stili classici: chi alla scuola tedesca, chi alla scuola belga (blanche, saison, abbaye…), chi ancora a quella anglosassone (bitter, porter, stout…); ben presto, però, i nostri artigiani hanno saputo andare oltre, con grande inventiva, accompagnata sempre dalla necessaria padronanza della tecnica. In ogni caso, quindi, producendo birre di grande equilibrio, corrette, che non cadono mai nelle facili esagerazioni. Oggi abbiamo birre prodotte con grano kamut, mirra e zenzero, oppure con spezie himalayane, altre con il chinotto di Savona (Presidio Slow Food), altre aromatizzate con i mirtilli, oppure con aggiunta di miele di corbezzolo, birre spumanti al ribes nero, o ancora birre scure e affumicate, birre acidule maturate in botti di legno, oppure fermentate con lieviti da whisky, e si potrebbe continuare ancora a lungo. Vanno citate, infine, le molte birre prodotte con l’aggiunta di castagne, che stanno dando origine a una vera e propria tipologia nazionale, molto apprezzata anche all’estero.
Uno dei risultati più importanti, al di là della qualità delle birre, evidentemente fondamentale, è l’avere iniziato un processo di rottura dei luoghi comuni legati alla birra; si trovano sempre più spesso birre servite alla temperatura, nel modo e nel bicchiere giusti, si inizia a trovare la carta delle birre accanto alla carta dei vini nei grandi ristoranti, sempre di più si parla di abbinamenti tra la birra e il cibo. In questi 10 anni la cultura della birra in Italia è molto cresciuta, anche grazie a moltissime serate di degustazione, cene con abbinamenti birra-cibo, corsi di cultura birraria, manifestazioni legate alle birre artigianali. Sono sorte, infine, diverse associazioni di appassionati, instancabili organizzatrici di eventi, degustazioni, viaggi.
Slow Food, dal canto suo, ha immediatamente capito la portata del fenomeno, promuovendo con convinzione la diffusione della cultura birraria: lo ha fatto principalmente attraverso due strumenti: i Master of Food, che dal 1999 promuovono l’educazione al gusto e il cui corso di birra è uno dei più gettonati e le grandi manifestazioni, Salone del Gusto, Cheese, Slow Fish, dove non sono mai mancati i Laboratori del Gusto a tema birra o con le birre in abbinamento. In particolare, al Salone del Gusto, c’è sempre almeno un laboratorio dedicato alle birre artigianali italiane: ovviamente è uno dei primi ad andare esaurito.

Scelti per voi

Baladin
Produzione e mescita
Piazza V Luglio, 15 – Piozzo (Cn)
www.birreria.com
Sicuramente il più conosciuto e apprezzato, non solo in Italia: vende con successo negli Stati Uniti, in Russia, in Giappone… Imprescindibili le sei birre in bottiglia, tutte ad alta fermentazione e tutte rifermentate in bottiglia: Isaac, una delicata blanche, prodotta con aggiunta di frumento locale e speziata con coriandolo e scorza d’arancia; Wayan, un’intrigante saison con cinque diversi cereali e ben nove spezie; Nora, esotica, dedicata alla cultura birraria dell’antico Egitto, prodotta con grano kamut, zenzero e mirra; Super Baladin, la più nota, ambrata potente e fruttata; Nöel Baladin, scura, perfetta per gli abbinamenti con i cru di cacao; Elixir Baladin, la più alcolica, fermentata con lieviti da whisky. Molto interessanti anche le tante sperimentazioni di Teo Musso, tra cui gli invecchiamenti in bottiglia e le maturazioni che sfruttano i processi ossidativi.

Barchessa di Villa Pola
Produzione e mescita
Via Batt. S. Pomini, 3 – Barcon di Vedelago (Tv)
www.villapola.com
Il birrificio, situato in una solenne barchessa settecentesca, è guidato da Paolo de Martin, già noto agli appassionati come uno dei birrai dei Soci dea Bira di Cavaso del Tomba. A Villa Pola produce una gamma di birre molto corrette e decisamente ispirate alla tradizione germanica, quindi prevalentemente a bassa fermentazione: Pola Hell, chiara e leggera, Pola Pils, più secca e luppolata, Biancaluna, classica weizen in stile bavarese, Dunbock, una dunkel bock decisamente maltata, Soci’s Schwarz, scura che già nelle feste dei Soci aveva molto impressionato, per chiudere con la Monfenera, ambrata prodotta con aggiunta di castagne.

Beba
Produzione e mescita
Viale Italia, 11 – Villar Perosa (To)
www.birrabeba.it
I fratelli Alessandro ed Enrico Borio, pionieri del movimento artigianale italiano, producono birre a bassa fermentazione, che si possono assaggiare nel locale di mescita annesso al birrificio, il Train Robber Syndacate. Le birre fisse sono sei: due chiare, due ambrate e due scure. Le chiare sono la Nr.1, leggera e ben luppolata e la Molto Malto, decisamente più forte e abboccata. Le ambrate sono la Gilda, morbida e beverina e la Toro, alcolica e complessa. Chiudono le due scure: Grafite, meno alcolica e la Motor Oil, dagli intensi sentori di torrefazione. Infine vanno citate le stagionali, tutte molto piacevoli: Re Magi, Natale, Talco.


Bi-Du
Produzione e mescita
Via Confine, 26 – Rodero (Co)
www.bi-du.it
Antico nome di una tipologia di birra sumera, per gli estimatori Bi-Du è il nome di uno dei brew pub italiani più apprezzati. Situato vicinissimo al confine con la Svizzera, offre una gamma completa di eccellenti birre, principalmente ad alta fermentazione. Sempre disponibili sono la stupenda Rodersch, beverina e secca kölsch e la luppolata ArtigianAle, prima classificata al concorso “Birra dell’anno” di Artebirra 2005. Secondo la stagione potete poi assaggiare la Confine, impegnativa porter, la bianca Remedios, la scura Jehol, l’estiva Du Bi-Du, la San Maffeo, a bassa fermentazione, la forte Xtrem, la rossa Buena Suerte, la Black Mamba, con avena, la Ley Line, con miele di corbezzolo. Ma sicuramente l’estroso birraio, Giuseppe Vento, ha in serbo altre novità.


Birra del borgo
Solo produzione
Via del Colle Rosso – Borgorose (Ri)
www.birradelborgo.it
La passione e la competenza di Leonardo di Vincenzo hanno già saputo portare questo birrificio, aperto soltanto nel maggio del 2005, tra i grandi d’Italia. La fama delle birre prodotte nello sperduto paesino di Borgorose ha già abbondantemente superato i confini nazionali, essendo note e apprezzate in Danimarca, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Leonardo produce birre ad alta fermentazione, rifermentate in bottiglia, tutte caratterizzate da grande eleganza. Si parte con la luppolata Re Ale, seconda classificata al concorso “Birra dell’anno” di Artebirra 2005, per seguire con la Duchessa, prodotta col farro locale, per passare alla fruttata Duc Ale e concludere con la tostata Re Porter. In stagione, potete trovare la deliziosa CastagnAle, alle castagne, la Cortigiana, estiva e luppolata, per finire con le ultime creazioni: la potente e natalizia 25 Dodici e i due esperimenti di birre al tabacco, Ke.To. Re Ale e la Ke.To. Re Porter – dove Ke.To. sta per Kentucky Toscano. Si possono trovare alla spina, in alcuni selezionati locali (tra cui il Ma che siete venuti a fa’ di Trastevere, Roma), oppure in bottiglia nei migliori beer shop.

Birrificio italiano
Produzione e mescita
Via Castello, 51 – Lurago Marinone (Co)
www.birrificio.it
Giustamente considerato uno dei guru della birra artigianale italiana, Agostino Arioli produce un’articolata gamma di birre molto interessanti, sia ad alta sia a bassa fermentazione. Sempre disponibili alla spina sono la Tipopils, una pils da innamoramento, e la Bibock, interessante interpretazione delle bock. Secondo la stagionalità si possono assaggiare B.I.-Weizen, bianca in stile bavarese, ExtraHop, superluppolata, Vùdù, gradevole dunkel weizen, la scura Prima, la Cinnamon Bitter Ale, prima real ale italiana, la profumatissima Fleurette, seconda classificata nel concorso “Birra in stile originale” ad Artebirra 2005. Da non perdere, infine, la gamma di birre in bottiglia, tra cui la Amber Shock, potente ambrata, la Cassisona, birra spumante aromatizzata con Ribes nero e la Scires, prodotta con aggiunta di duroni di Vignola e fermentata con tre ceppi di lievito (tra cui una “madre” del 1999).

Cittavecchia
Solo produzione
Località Prosecco Stazione – Sgonico (Ts)
www.cittavecchia.com
Nel 1999 Michele Barro decide di trasformare la passione per la birra e l’esperienza maturata da home brewer in attività lavorativa. Nel birrificio Cittavecchia produce birre sia a bassa sia ad alta fermentazione, con diffusione regionale e nazionale. La più apprezzata è la Chiara, leggera e moderatamente luppolata, ma non da meno sono la fresca Weizen, di frumento, la ambrata e leggera Rossa, la forte Formidable, la speziata San Nicolò. Le birre si possono trovare, alla spina, in ristoranti e pub della zona di Trieste, in bottiglia nei migliori beer shop nazionali.

Grado plato
Produzione e mescita
Viale Fasano, 36 b – Chieri (To)
www.gradoplato.it
Grande appassionato e instancabile ricercatore, Sergio Ormea mette grande competenza nelle sue birre, prodotte sia ad alta sia a bassa fermentazione. Sempre disponibili nel locale di mescita la Sveva, chiara a bassa fermentazione, la Spoon River, ambrata ad alta e la Melissa, al miele. Moltissime, e in continua evoluzione, le stagionali: Mica, di frumento, Kölscher, ispirata alle birre di Colonia, Strada S. Felice, alle castagne, Eveline, interpretazione delle outmeal stout irlandesi, Jack delle nuvole, in stile bitter inglese, Märzen, ispirata alle birre dell’Oktoberfest. Per finire va sottolineato il progetto “Birra di Chieri”. In collaborazione con il locale istituto agrario sono stati messi a dimora l’orzo e il luppolo; l’orzo è stato poi raccolto, maltato e utilizzato per la produzione della Sticher, scura ad alta fermentazione, ispirata alla Stiche di Düsseldorf. La birra ha avuto grande successo e tutti gli appassionati aspettano con ansia la seconda annata, in cui sarà utilizzato anche il luppolo locale.

Lambrate
Produzione e mescita
Via Adelchi 5, Milano
www.birrificiolambrate.com
Vivace locale nel quartiere milanese di Lambrate, merita la visita sia per l’atmosfera unica, specie durante l’aperitivo, sia per la qualità delle birre. Il birraio Fabio Brocca cura la produzione assieme ai fratelli Davide e Giampaolo Sangiorgi, che si occupano anche del locale. Le birre, tutte ad alta fermentazione, sono battezzate con nomi molto “milanesi”: l’ottima Montestella, secca e luppolata, la scura affumicata Ghisa, la chiara e forte Sant’Ambroeus, le ambrate Porpora, meno alcolica, e Lambrate, più forte, le stagionali Domm, di frumento in stile bavarese e Brighella, natalizia. Tutte le birre, ottimamente spillate nel brew pub di via Adelchi, si possono trovare in fusto anche in altri locali milanesi e non, mentre la produzione in bottiglia è stata avviata recentemente.

Lurisia
Solo produzione
c/o birrificio Baladin
Nuovo progetto di Teo Musso, sviluppato attorno all’eccellente qualità dell’acqua di Lurisia. La prima parte del progetto, che prevederà poi anche acque e bevande analcoliche, è rappresentata da due nuove birre, prodotte a Piozzo presso il birrificio Baladin, utilizzando l’acqua Lurisia. Le birre, entrambe ad alta fermentazione e rifermentate in bottiglia, sono chiamate, secondo un’antica tradizione belga, semplicemente con un numero; sono prodotte con malto d’orzo italiano, grano saraceno del Monregalese e speziate con un ingrediente segreto. La 6 è leggera, ma molto profumata, può ricordare una blanche, mentre la 10 è decisamente più alcolica, complessa, impegnativa. Entrambe sono disponibili soltanto in bottiglie da 75 cl: la commercializzazione è iniziata da poco e ha carattere nazionale.

Montegioco
Solo produzione
Frazione Fabbrica, 30 – Montegioco (Al)
www.birrificiomontegioco.com
Uno dei birrifici più recenti, aperto soltanto all’inizio del 2006, vanta già una notevole considerazione. Il birraio, Riccardo Franzosi, produce una gamma molto originale, con alcune birre decisamente estreme. Come da tradizione alcune sono stagionali, mentre tre sono disponibili tutto l’anno: la Runa, chiara e leggera, la Ratweizen, di frumento e la Demonhunter, ambrata forte e alcolica. Tra le stagionali, invece, la Runa bianca, di frumento, la Runa forte, la Mac Runa, la Quarta Runa, alle pesche, la Bastarnà, alle caldarroste, la Bran e la Draco, aromatizzata ai mirtilli. Le birre, principalmente prodotte in bottiglia, si possono trovare in alcuni ristoranti della zona e nei migliori beer shop nazionali.

Torrechiara
Solo produzione
Strada Pilastro, 35 – Torrechiara (Pr)
www.panilbeer.com
Renzo Losi è figlio di un produttore di vino e il suo birrificio sorge proprio accanto all’azienda vinicola del padre; naturale che per alcune birre si utilizzino tecniche di maturazione in botte mutuate dal mondo del vino. Non solo birre vinose, però: compongono la gamma la Panil Blanche, fresca e speziata birra di frumento, la Panil Ambre, ambrata rifermentata in bottiglia, la Panil Brune, scura e maltata, la Panil Enhanced, forte strong ale e la Black Oak, prodotta interamente in legno. Ultima nata è la Panil Bionda, pensata per essere la birra quotidiana. Il cavallo di battaglia del birrificio, però, è la Panil Barriquée, nelle due versioni mild e sour. Entrambe maturate in botti di quercia, si differenziano per la durata del passaggio in legno e quindi per il grado d’acidità. La Barriquée Sour ha creato un vero e proprio caso negli Stati Uniti, ottenendo consensi a dir poco entusiastici e una notorietà davvero impressionante.

Troll
Produzione e mescita
Strada Valle Grande, 15 – Vernante (Cn)
www.birratroll.it
Il birrificio Troll offre una gamma di birre molto originali, che in poco tempo hanno saputo conquistare un grande numero di appassionati. Il birraio, Daniele Meinero, produce birra ad alta fermentazione, con un interessante uso di spezie e materie prime non convenzionali. Disponibili durante tutto l’anno sono la Dorina, bionda con leggera speziatura di lavanda, la Panada, blanche con erba limonaria, la Patela, strong ale bionda e la Shangrila, ambrata con spezie himalayane. Stagionali, invece, l’estiva e leggera Daü, ispirata alle saison vallone, l’autunnale e forte Palanfrina, alle castagne, l’invernale Stella di Natale, scura e potente, la pre-primaverile Ipa, incredibilmente luppolata e la primaverile Febbre Alta, con 16 diverse erbe officinali, primo premio al concorso “Birra in stile originale” ad Artebirra 2005. Solo in bottiglia, invece, la Shangila Fumé, prodotta con malti torbati.

1/08/2007

Badiamo alla nostra casa (di Carlo Petrini)

Editoriale del Presidente Internazionale di Slow Food, che trovate qui.

Sono appena finite le corse su e giù tra i padiglioni del Lingotto e l’Oval, terminate ma ancora vivide le suggestioni che ci sono giunte da ogni parte del mondo durante Terra Madre e il Salone del Gusto. Si ritorna ai ritmi normali di vita in quel di Bra e si riflette su quanto è trascorso, si cerca di riordinare le idee sbocciate in un tourbillon che ci ha piacevolmente travolti.
Io, al di là delle facili considerazioni sulla riuscita degli eventi in questione, sull’umanità fantastica e fraterna con cui siamo di nuovo venuti a contatto diretto, esco dalla cinque giorni torinese con una nuova convinzione e una forte considerazione di tipo economico.
Siamo di fronte all’ineluttabile: la nostra Terra è una madre offesa e vilipesa, ma questa Terra è pur sempre la nostra casa comune. Guardando ai produttori presenti a Torino – che quest’anno al Salone sono passati al 75% sul totale degli espositori, quando 10 anni fa la stessa percentuale di maggioranza era rappresentata, invece, dai commercianti – finalmente ho il conforto che ci sia gente al mondo in grado di badare alla nostra casa in maniera moderna e innovativa.
L’economia è la scienza che deve provvedere al mantenimento della casa. Eco deriva dal greco ôikos: dimora. Economia ed ecologia sono i due modi per governare la nostra abitazione comune che è la Terra. Queste scienze sono state espresse benissimo dai delegati e dai produttori presenti, coloro che sanno mantenere la Terra, la rendono sana e la consegnano alle future generazioni.

Per questo, dopo Terra Madre sono sempre più convinto che sia necessario pensare di realizzare una nuova economia, basata sulla rilocalizzazione di produzioni e consumi, sull’accorciamento delle filiere (parola che continua a non piacermi), sulla valorizzazione delle microeconomie locali e di piccola scala, che in ambito agricolo tutelano un corretto rapporto con la natura e sono la garanzia per la dignità e la sovranità alimentare, nonché sulla sicurezza alimentare delle popolazioni.
E questo, si badi bene, è ciò che può e deve avvenire sia nei paesi poveri sia in quelli ricchi. Il Nord e il Sud del mondo sono oggi alle prese con diversi ordini di problemi che, però, sono tutti figli dello stesso sistema. Malnutrizione e obesità sono facce della stessa medaglia. L’economia di mercato sta palesando limiti insostenibili, sta consumando se stessa e le risorse del pianeta, condannando il cibo a un triste futuro, la Terra a un inverosimile logorio e, di conseguenza, anche noi.
Le persone presenti al Lingotto e all’Oval ci parlano di un’economia che, prima di tutto, è sussistenza per chi produce e rispetto per il luogo d’origine. Da qui si può ripartire con una logica nuova, fondata sul concetto di comunità, che ci insegna a ridare importanza a valori come solidarietà, gratuità, fraternità. Valori che disegnano un modo più umano, più diretto di fare commercio, che restituiscono la giusta collocazione alle culture locali del cibo.

Non si tratta di combattere contro qualcosa o qualcuno in particolare ma, piuttosto, di lavorare per il diritto di tutti a praticare questa economia che è sempre stata considerata marginale, incapace di gonfiare i Pil degli Stati, legata a forme arcaiche di affrontare l’esistenza. Non è più così, non è mai stato così: questa economia è sostenibile, in grado di sfamare dove c’è fame, di nutrire meglio dove c’è malnutrizione, di non sprecare dove c’è abbondanza, di generare reddito, di mettere in moto la difesa del territorio e dei saperi tradizionali.
Le comunità del cibo e i produttori presenti a Torino sono il modo migliore di rispondere ai tanti che, durante i due eventi di fine ottobre, nelle interviste, lasciavano sempre e maliziosamente cadere lì il dubbio sul fatto che essi rispecchiassero un modello utopico, slegato dalla realtà e destinato a rimanere “di nicchia”. No, questa è la realtà di persone che, messe insieme, fanno impallidire il fatturato delle multinazionali del cibo; questo è il futuro del cibo e dell’economia globale che si può già vedere, toccare, conoscere, mangiare.
Vorrei che questo localismo postmoderno più di tutti fosse il seme che animerà la rete di Terra Madre e delle comunità del cibo. Vorrei che si scolpisse in tutti noi la convinzione che si sta promuovendo un nuovo modo di fare economia, forte di legami funzionali con il passato, ma proiettato verso un domani decisamente migliore e, soprattutto, rispettoso della nostra madre, della nostra casa comune.

Le immagini a corredo di questo articolo sono di Alberto Peroli.

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1/05/2007

Due anime, anzi no (di Alessandro Monchiero)

Editoriale di Slowfood 23, che trovate qui.

Corridoi. Luoghi di passaggio fra realtà comunicanti, non necessariamente omologhe. In fondo al padiglione 3 del Lingotto, interamente dedicato ai Presìdi italiani e internazionali, c’è quello che mette in contatto il Salone del Gusto con Terra Madre. In mezzo, a fare da cuscinetto tra i due mondi, ecco il Mercatale di Montevarchi in trasferta sabauda, con le sue bancarelle di produttori che vendono direttamente ai consuma- tori, offrendo in garanzia prima di tutto le loro facce, la loro storia. Poi, una scabra e trafficata via simile a un’uscita di sicurezza a cielo aperto – e che cieli tersi e inconsueti in questo tardo ottobre torinese! – nasconde fino all’ultimo metro l’epifania del gigantesco piazzale dell’Oval, brulicante di un via vai di etnie e di colori, e spesso di gente che si riposa dopo estenuanti viaggi iniziati il giorno prima.

La prima volta che lo percorri è giovedì nell’ora di pranzo, quando il Salone ha aperto i battenti da poche ore e già ribolle di profumi e di gente china per annusarli meglio e nell’enoteca si sono già stappate centinaia di bottiglie per accompagnare i cicheti veneti di Galdino o il pesce crudo di Nando. È solo giovedì ma hai già faticato un po’ per farti strada nell’arrivare fino qui, zigzagando tra una folla perfino inaspettata e ora, sul piazzale e nell’atrio dell’Oval – dove troneggia una splendida capanna o igloo che dir si voglia di Merz –, respiri tutta un’altra aria: la sensazione di “mondo altro” è palpabile e, ti dici, difficilmente incrinabile. Eccole, dunque, le due anime di Slow Food: la kermesse fieristica del Salone e lo spazio etico-filosofico di Terra Madre. Con giustamente il Mercatale a fare da intercapedine, un limbo di convivenza tra il mondo della produzione e quello del consumo. Ma è solo giovedì. E siamo tutti ancora un po’ te- si. C’è da rispettare il rigido protocollo presidenziale per ospitare Napolitano all’assemblea plenaria di apertura di Terra Madre, ci sono da accreditare oltre 5000 delegati delle comunità del cibo, un migliaio di cuochi e circa il doppio dei giornalisti e ci sono già le code fuori dalle biglietterie del Salone, che promettono un infuocato weekend che ci porterà alla stratosferica cifra di 172 000 visitatori. E il giovedì è il giorno delle domande, delle ipotesi, delle aspettative. E dello sconvolgente impatto visivo dell’Oval composta- mente strapieno: 7000 sedie rosse occupate da volti asiatici e sudamericani, caucasici e africani, infagottati e protetti dalle forme ondulate della struttura progettata da Alessandro Zoppini, con quel groviglio-gioiello di tubi a far da cappello e quelle centinaia di teleobiettivi schierati sulla terrazza, vanamente tesi a cogliere il tutto, sebbene il tutto non ci stia e debordi, e si rannicchi spesso lontano dai flash. Nelle mani dei campesinos messicani o dei pastori transumanti mongoli, nei monili delle donne sahariane o sotto il caftano delle mediorientali. È solo giovedì e se due mondi devono essere, perlomeno sono due bei mondi, che ci piace avere riunito geografica- mente e cronologicamente: Lingotto e Oval, Torino, dal 26 al 30 ottobre.

Ma poi venerdì, sabato, domenica e lunedì quel corridoio diventa una vena, dove il sangue, il calore e la vita s’intrecciano e si amalgamano in un sol corpo. E quel corpo è quello di ciascuno di noi, armonico soltanto quando il piacere sposa il pensiero, e il gusto individuale diventa un diritto collettivo, da estendere e preservare in futuro. E senti nella sala gialla del Lingotto – per l’occasione battezzata Spazio Slow in onore alla rivista omonima e dedicata alle conferenze aperte al pubblico di Terra Madre – la voce di Villafane Moises, campesino colombiano, con la sua fiera testa allungata dal tutosoma bianco. Ci parla del dio dell’occhio, del dio del fegato e del dio della bocca. E dice che quando muore una pianta muore una parte di noi, perché sia- mo parte del tutto. E che la nostra memoria è a mollo nel lago e conficcata nella dura roccia nella montagna, e della nostra appartenenza al- la Terra, che dunque non ci appartiene. E, ancora, della missione che ogni singola pianta ha nel mondo, perfino la vituperata foglia di coca, che non è colpevole dello squallido uso che ne facciamo. E con altri toni ma con altrettanta ispi- razione senti Ferran Adrià scandire il suo mea culpa, «il modello alimentare occidentale ha fallito», applaudito da contadini burkinabé e pescatori coreani che incassano le sue scuse, eppure neppure immaginano di trovarsi al cospetto di uno dei più grandi chef del mondo. E tutte le anime si fondono e sono una cosa sola, un’anima di resistenza e speranza a quanto apprendiamo – senza troppa sorpresa, purtroppo – martedì 31 ottobre, a manifestazioni concluse, quando i giornali diffondono l’ultimo drammatico rapporto Fao, con il numero delle persone che soffrono la fame salito a 854 milioni, in un mondo che produce il doppio del suo necessario. Ecco, la sensazione che il Salone e Terra Madre abbia- no lavorato anche per questa fetta di mondo è consolante e ci rende orgogliosi, e che Slow Food sia riuscito a far convivere, addirittura fraternamente, Aminata Traoré e Vandana Shiva con Scabin, Ducasse e i produttori di culatello di Zibello è un’utopia concretizzata, dalla quale ripartiremo con convinzione. È la rete che prende vita, sono i nervi, le vene, le gole, i pensieri del pianeta che s’intersecano in una globalizzazione virtuosa. Tutto ciò ci piace e, con permesso, ci commuove.

Su questo numero della rivista siamo riusciti a inserire all’ultimo momento, poco prima di andare in stampa, un assaggio fotografico di quel che è successo a Torino. Ci ritorneremo abbondantemente su nel 2007, quando a fine febbraio troverete un nuovo Slowfood nella vostra buca delle lettere: ci lavoriamo da mesi e abbiamo la speranza che sia graficamente più bello, più interessante dal punto di vista contenutistico, più facilmente consultabile e ancora più aperto al mondo associativo. Molto curiosi di ricevere, oltre alle vostre opinioni sui cambiamenti, anche spunti, tracce, suggerimenti su come migliorarlo ancora.

Le foto di questo articolo sono di Gianluca Canè. Ne trovate molte altre qui.

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