Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

1/07/2008

Antonio, il cinema, il vino

Intervista ad Antonio Attorre di Giovanni Ruffa

In principio, per chi scrive, Antonio Attore è stato una firma sul Gambero rosso. Il primo, quello che usciva come supplemento al manifesto. Gli articoli raccontavano di pescatori dell’Adriatico, di cucina di mare e di vini di collina in modo nuovo e stimolante. E poi di una nuova, un po’ strana associazione chiamata Arcigola, sorta di congrega di barolisti di sinistra. Poi, in quella associazione che voleva il piacere per tutti entrammo anche noi, e allora Antonio divenne prima una fisionomia familiare, poi un amico. E un collaboratore fisso della casa editrice che intanto era nata. In tutte le pubblicazioni attraverso le quali Slow Food Editore ha costruito il proprio catalogo compare il suo nome. È fin dalla prima edizione referente per il centro Italia di Osterie d’Italia e di Vini d’Italia. Ha firmato Itinerari Slow e ricettari. Scrive da sempre per le riviste dell’associazione. Insieme abbiamo curato la prima edizione della Guida al vino quotidiano, e Antonio ha dato il suo contributo al Piacere del vino, a Slow e, infine, a Slowfood.
Accanto agli interessi per l’enogastronomia ha però sempre coltivato, lui, tra i primi a laurearsi al Dams di Bologna, un giardino personale, in cui ha nutrito e fatto crescere una passione consapevole per la musica e il cinema. Il risultato non è soltanto un patrimonio di dischi e cd, di videocassette e dvd, ma pure pubblicazioni come Eccentrici clowns, appunti di sociologia della musica, la presentazione del libro fotografico di Lucia Baldini Giorni di tango, Le lune e il saper fare, raccolta di articoli e brevi saggi.
Ora i due amori si sono uniti. Il risultato è Château Lumière – Brindisi ed ebbrezze al cinema, un percorso originale che, passando da Hitchcock a Chabrol, da Tavernier a Ioseliani, da Wilder a Kaurismaki, rilegge la storia del cinema da un’angolazione particolare, attraverso il filtro di una coppa di Champagne o di un bicchiere di Chianti. Titoli recenti, si legge nell’introduzione, hanno fatto scrivere e discutere di vino un pubblico ben più ampio di quello, solito, degli addetti ai lavori, ma da sempre il vino sullo schermo svolge funzioni diverse: è simbolico, identitario, narrativo, metaforico. L’attenzione per gli aspetti legati a un mutato consumo del vino, poi, letti in particolare attraverso la filmografia italiana del dopoguerra, fanno del lavoro di Antonio un efficace strumento di analisi sociologica e antropologica, capace di seguire la metamorfosi di un paese, l’Italia, passato in poco più di mezzo secolo dalla dimensione rurale a scenari post-industriali. Poi ci sono Hollywood e le nuove cinematografie orientali, Bertolucci e James Bond, Olmi e Il pranzo di Babette, Ferreri e Debord, in una documentatissima ricostruzione che farà la gioia ai cinefili e aprirà inedite prospettive a ogni lettore.
Abbiamo parlato con lui. Del libro e d’altro.

Nel tuo libro osservi come il vino al cinema, un tempo spia di mutamenti economici, sociologici, antropologici, esprima spesso, oggi, il desiderio di modi di vita meno stereotipati e costrittivi, in una parola più slow. Si tratta, secondo te, di una tendenza reale nel mondo contemporaneo o di uno stilema cinematografico?
Direi di sì, anche se con una valenza perlomeno duplice: c’è una percezione, un nuovo interesse per il vino che contiene più o meno direttamente ricerca di autenticità, attenzione al particolare e a una dimensione personale e artigianale del fare, e c’è parallelamente l’affermazione senza precedenti del vino come status symbol, al tempo stesso elitario e di massa.

Negli ultimi tempi almeno due film hollywoodiani – Sideways e Un’ottima annata – hanno il vino come protagonista. Pensi che il loro successo possa avere positive conseguenze sull’educazione a un consumo consapevole, inducendo altresì nei produttori filosofie “buone e giuste”, nel Nuovo Mondo enologico e non solo? Oppure si tratta soltanto di un filone, di una moda come tante?
Entrambi i film testimoniano l’alto valore culturale riconosciuto al consumo consapevole di vino e ne esaltano, nei toni lievi della commedia cinematografica, il valore metaforico: dimensione riflessiva, vita rilassata e, diciamo, sobriamente edonista, sottilmente critica nei confronti dell’omologazione in agguato. La reazione comicamente rabbiosa di Paul Giamatti agli standard e all’organizzazione “fordiana” di una cantina californiana, in Sideways, e l’ironia nei confronti dell’enologo in doppiopetto che arriva in Limousine nel vigneto provenzale sembrano autorizzare un’interpretazione in questa chiave.

Come mai questo ritorno dei documentari (anche nel settore enologico, come nel caso di Mondovino)? Non esiste più un cinema di fiction capace di raccontare storie ma anche di fare analisi, critica, denuncia?
Nelle riflessioni sul gran momento del documentario sono in molti a cogliere l’elemento di debolezza narrativa e critica di molto cinema di fiction, ma anche di una certa inadeguatezza del giornalismo d’inchiesta tout court rispetto a una realtà dominata dalla spettacolarizzazione e dal virtuale. Inoltre, la scelta del documentario da parte di molti registi – più o meno giovani e che continuino o meno a realizzare anche cinema di fiction – nasce anche da una ricerca di sperimentazione linguistica, da un’esigenza di maggiore libertà nella scelta di storie, tematiche, ambienti e, soprattutto, nello sguardo.

A proposito di Mondovino. Molte voci critiche si sono levate dal mondo degli addetti ai lavori rispetto al lavoro di Nossiter. Che cosa ne pensi?
Credo che si debba distinguere tra le reazioni del mondo del vino, abbastanza diverse tra loro, a quanto mi risulta, negli Usa e in Europa (in Francia in particolare, dove attorno al film si è sviluppato un vero e proprio dibattito culturale di rilievo), e quelle della critica: in questo ambito Mondovino (di cui è bene ricordare che la versione cinematografica uscita nelle nostre sale non è che una riduzione del materiale integrale strutturato in 10 puntate documentaristiche, regolarmente programmate in questa forma dalla televisione francese e pubblicate anche in dvd) ha avuto un’accoglienza a volte tiepida, soprattutto sul piano tecnico-stilistico. Ma naturalmente è sul terreno della denuncia anti-globalizzazione che si è giocata la partita più accesa, con reazioni talvolta estreme rispetto ai contesti, ai personaggi a loro volta in qualche modo estremi presenti nel film. Vorrei dire che, in ogni caso, va riconosciuta a Nossiter un’indubbia capacità di lettura antropologica del mondo del vino e che certe caratterizzazioni quasi grottesche (penso all’enologo wine-star che scende e sale da un aereo all’altro, compiaciuto del proprio potere e del tutto incapace di autoironia) non sono certo frutto di una presunta demagogia dell’autore, bensì testimoniano con involontaria comicità l’universo culturale di alcuni protagonisti del film.

Tra le pagine più interessanti di Château Lumière ci sono senza dubbio quelle che analizzano la difficoltà di raccontare per immagini le percezioni sensoriali. D’altra parte, verifichiamo quotidianamente la povertà della televisione nel mettere in scena il cibo, il vino e le realtà da cui originano. Come mai, a cinquant’anni da Soldati e dal Viaggio lungo il Po, il giornalismo per immagini appare così inadeguato a cogliere l’essenza della produzione e del consumo enogastronomico?
La spettacolarizzazione banale, il sensazionalismo, la chiassosità e l’autoreferenzialità segnano gran parte della produzione televisiva che, simmetricamente, rivela scarsa capacità d’ascolto e di attenzione al particolare. Vino e cibo mi sembra non sfuggano a questo scenario, né può essere casuale che le formidabili trasmissioni di Soldati, tra le altre cose profondamente innovative proprio rispetto all’uso del mezzo televisivo, siano cadute nel dimenticatoio e a nessuno – se non, meritoriamente, Fuori Orario su Rai3, seppure in orari notturni – sia venuto in mente di riproporle. Il fatto è che quell’attenzione per la dimensione artigianale che era la cifra del Viaggio di Soldati conteneva a sua volta una capacità artigiana di scrivere o di filmare che oggi si fatica a ritrovare nei palinsesti televisivi come in molte pagine dei quotidiani.

Al di là dell’atteggiamento storico-critico, puntuale nel ripercorrere la presenza e il ruolo del vino al cinema, mi pare di cogliere, nell’Antonio Attorre cinefilo, malcelate simpatie per registi irregolari e poco inquadrabili, come Ioseliani e Kaurismaki. Sbaglio?
In effetti amo molto i registi che citi, e altri irregolari come Cassavetes o Jarmusch, ad esempio, per i quali le scelte di soggetti inusuali o periferici coincidono con scelte stilistiche di grande libertà narrativa e che considero salutari, nel senso che tendono a stimolare le capacità percettive e critiche del pubblico. Anche qui: nella prevalenza di produzioni standardizzate, prevedibili, piattamente seriali i piccoli film di questi autori hanno un sapore artigianale, e producono una sorta di ecologia della percezione. Gli ironici bevitori di Ioseliani, poi, esprimono una critica di alcuni aspetti della modernità, e il bicchiere di Kaurismaki ha talvolta il valore di un gesto di resistenza.

Dopo tanti libri, a quando un film su Slow Food? I temi non mancherebbero. Dal diritto al piacere all’elogio della terra, dai neo-forchettoni ai contadini del mondo, dalle tavolate conviviali alle comunità di destino. E poi l’ebbrezza, la festa, l’impegno, il viaggio…
Nei mesi scorsi mi è capitato di leggere due importanti saggi sui consumi (La globalizzazione del nulla, di Ritzer e L’impero irresistibile di Victoria de Grazia) che, nella parte finale, analizzano il movimento Slow Food riconoscendone l’enorme valore antagonista alle tendenze omologatrici. Questo per dire che i tempi sarebbero più che maturi per un documentario articolato sulla chiocciola. Nell’irresponsabilità dell’immaginazione, però, dico che mi piacerebbe poter vedere un bel film di fiction che riuscisse a cogliere l’anima slow coniugando, diciamo, il gusto affabulatorio di un Soldati e la leggerezza di un Billy Wilder.

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