Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

10/16/2007

Inversione di rotta (di Michele Fossi)

Il primo articolo della sezione Hot News su Slowfood 29, dedicato alle principali novità del quarto rapporto Ipcc e al global warming.

Il 2 febbraio 2007 un vento insolitamente caldo spira per le strade di Parigi. Appeso al chiodo il cappotto e indossata una primaverile giacchetta di velluto, mi dirigo verso i palazzi dell’Unesco, dove si terrà la conferenza sui risultati dell’ultimo rapporto (il quarto dal 1990) dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), promosso dall’Onu. Le telecamere dei canali tv di mezzo mondo sono puntate dalle prime ore dell'alba; centinaia di giornalisti con il cellulare all'orecchio comunicano le prime indiscrezioni alle redazioni; la trepidazione che si respira tradisce l'importanza straordinaria della conferenza che da lì a poco avrà inizio. Si discuteranno i risultati di sei lunghi anni di ricerche sviluppate da un team internazionale composto da circa 2500 scienziati attivi in 130 paesi diversi e condensate in circa un migliaio di pagine. Cosa sta succedendo al nostro pianeta? Si sta davvero inarrestabilmente scaldando? E la colpa di chi è? Dell'uomo? E, se sì, è troppo tardi per invertire la rotta? Questi gli interrogativi a cui il pool di scienziati ha cercato di rispondere.

Le cause chimiche e fisiche
La conferenza ha inizio con la proiezione di tre curve che descrivono la concentrazione dei tre principali gas serra – anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) – nell’atmosfera terrestre da 10 000 anni a questa parte (figura 1). Dopo un andamento pressoché costante per millenni, improvvisamente, in corrispondenza della seconda metà del XVIII secolo, le tre curve subiscono un’impennata quasi verticale. A indurre cambiamenti così repentini nella composizione dell’atmosfera non è né l’impatto con un asteroide né una terribile eruzione vulcanica, ma un cataclisma silenzioso che nei libri di storia prende il nome di rivoluzione industriale: l’uomo inventa strumenti di produzione sempre più efficienti azionati a enegia meccanica ricavata dai combustibili fossili.
Da quegli anni, il rilascio nell'atmosfera dei gas serra non ha conosciuto battute di arresto: la concentrazione di CO2 è passata da 280 ppm (parti per milione) prima del 1750 agli attuali 383 ppm, con una crescita massima, vertiginosa, negli ultimi 10 anni, pari a 1,9 ppm per anno. Mai, negli ultimi 650 000 anni, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera era stata così alta. Un discorso simile vale anche per il metano, passato in soli 255 anni da 715 ppb (parti per bilione) a 1774 ppb, valore di gran lunga superiore a quelli registrati negli ultimi 650 000 anni, oscillanti tra 320 e 790 ppb. Il protossido d’azoto passa, invece, dai 270 ppb in età preindustriale agli odierni 319 ppb. Le emissioni dei tre gas serra incriminati sono ascrivibili ad attività umane diverse. La CO2 è principalmente rilasciata dal consumo di combustibili fossili e, indirettamente, il suo aumento nell'atmosfera è favorito dalla deforestazione; l'agricoltura, come un gatto che si morde la coda, è uno dei settori economici più vulnerabili ai cambiamenti climatici, ma anche quello che più contribuisce al rilascio di CH4 e N2O che ne sono all’origine.
«Questi grafici, ottenuti analizzando la composizione chimica dell’aria intrappolata nel ghiaccio per centinaia e migliaia di anni, parlano da soli. Per quanto riguarda la crescita vertiginosa dei gas serra» sottolinea Susan Salomon, uno dei "saggi" che hanno redatto il documento ufficiale, «è fuor di dubbio che la responsabilità sia dell'uomo».
Le ciminiere emettono grandi quantità di gas serra, ma anche grandi quantità di polveri fini che fluttuano a lungo nell’atmosfera. Se i primi causano un accumulo di calore sulla superficie terrestre, questo secondo tipo di emissioni antropiche, che prende genericamente il nome di aerosol, contribuisce al contrario a un suo raffeddamento, sia direttamente, riflettendo i raggi solari, sia indirettamente, catalizzando la formazione delle nubi. Per molti anni, tuttavia, gli scienziati non sono stati in grado di razionalizzare in maniera convincente e, soprattutto, di quantificare il loro effetto sul clima.
Gli effetti sul clima dei due tipi di emissioni, di segno opposto, si elidono forse a vicenda? «Una delle più importanti novità di questo rapporto è la possibilità di stimare, con una certa accuratezza, l'effetto schermante degli aerosol. Oggi sappiamo che essi mitigano, ma certamente non annullano l’effetto serra. È dunque finalmente possibile affermare che le attività umane, prese nel loro complesso, hanno contribuito nel tempo a scaldare il pianeta» sentenzia Salomon. Per apprezzare questa asserzione occorre parlare in termini di radiative forcing ("forza radiativa"), ovvero la grandezza fisica che esprime la capacità di un fattore di influenzare il bilancio energetico del pianeta. Fattori con radiative forcing positivo tendono a scaldare la terra, mentre quelli con radiative forcing negativo contribuiscono al suo raffreddamento. Ciò che emerge dagli ultimi studi è che la forza radiativa di segno positivo dei tre gas serra (pari a +2,3 Wm-2) presi insieme non è affatto compensata da quella di segno negativo degli aerosol (stimata attorno ai -1,2 Wm-2). Viste nel loro complesso, le attività umane a partire dalla rivoluzione industriale hanno esercitato dunque una forza radiativa di segno positivo pari a circa +1,6 W m-2, con un netto effetto riscaldante sul pianeta.
È capitato spesso di sentire quanti avversano il protocollo di Kyoto prendersela con un presunto aumento dell'irraggiamento solare quale reale causa del global warming. Oggi i dati a disposizione consentono di sfatare anche questo mito: il sole, è vero, ha scaldato leggermente di più negli ultimi due secoli, ma questo fenomeno astrale contribuisce solo per +0,12 Wm-2 al bilancio energetico del pianeta, ovvero circa cinque volte meno di quanto non faccia l'uomo.

Lo scenario attuale
«Il riscaldamento del pianeta è ormai indubbio, come si evidenzia da misure di temperatura media globale, dall'innalzamento del livello dei mari e dal rapido scioglimento delle nevi e dei ghiacciai (figura 2)» prosegue Salomon. Alcuni dati per convincersene: 11 degli ultimi 12 anni (1995-2006) figurano tra i 12 anni più caldi da quando esistono misure attendibili (1850). Le temperature aumentano, e, ciò che più spaventa, lo fanno sempre più velocemente: negli ultimi 50 anni sono aumentate di circa il doppio di quanto abbiano fatto negli ultimi 100.
A scaldarsi non è solo l'atmosfera, ma anche le acque dell'oceano, un fenomeno percepito addirittura fino a tre chilometri di profondità. Si stima addirittura che gli oceani, in virtù dell'alta capacità termica dell'aqua, abbiano assorbito fino all'80% del calore aggiunto al pianeta in questi ultimi decenni, con un conseguente aumento, per espansione termica, del loro volume. Non tutti sanno che l’“espansione dell’acqua” è la causa principale dell'innalzamento del livello dei mari, ancor più dell'inarrestabile scioglimento dei ghiacciai perenni, delle nevi montane e delle calotte polari presi insieme. Un innalzamento di tutto rispetto, pari a 17 centimetri nell'ultimo secolo, e per giunta sempre più rapido, con un ritmo attuale di 3,1 millimetri per anno. Per la fine del secolo l'Ipcc stima un ulteriore aumento compreso tra i 18 e i 59 cm, una previsione peraltro giudicata troppo ottimistica da molti climatologi tra cui Stefan Rahmstorf dell'università di Potsdam, le cui simulazioni, pubblicate provocatoriamente on line sull' autorevole rivista Science un giorno prima della conferenza di Parigi, prevedono un innalzamento dei mari fino a 1,4 metri entro il 2100.
Il Polo Nord è sicuramente la regione dove gli effetti del cambiamento climatico sono più manifesti: le fotografie scattate dai satelliti mostrano che la superficie dell'Artide si è ridotta mediamente del 2,7% per decennio, valore che sale al 7,4% se si considera solamente il periodo estivo. Un discorso simile vale per le regioni ricoperte dal permafrost (regioni dove il suolo è rimasto a temperature inferiori allo 0 per millenni), la cui superficie complessiva, nel periodo primaverile, si è ridotta ormai al 15% rispetto a un tempo.
Difficile negare l'evidenza di questi dati. Che si tratti forse di una semplice fluttuazione naturale? Che il caldo di questi anni sia solo una bizzarra coincidenza? Per dare una risposta a questa domanda gli scienziati hanno raccolto dati "paleoclimatici", ovvero misure indirette della temperatura basate su vari indicatori (come l'analisi delle bolle d'aria intrappolate da secoli o millenni nel ghiaccio prelevato con carotaggi a grandi profondità) che consentono di ricostruire il clima del pianeta nel passato, nell'ordine delle decine come dei milioni di anni. Si tratta di un importante passo avanti rispetto al rapporto Ipcc del 2001 che ha permesso di appurare che il riscaldamento del pianeta registrato negli ultimi 50 anni è anomalo, almeno nell'arco degli ultimi 1300 anni.
«L'uomo è responsabile dei cambiamenti del clima? Il 2 febbraio 2007 verrà forse ricordato nei libri di storia come il giorno in cui è stato tolto il punto interrogativo a questa domanda» sentenzia Achim Steiner, presidente dell'Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite. Questo quarto rapporto Ipcc segna infatti un importante giro di boa: per la prima volta gli scienziati concordano nel dire che è «molto probabile che il riscaldamento del pianeta sia dovuto alle emissioni di gas serra di origine antropica». Molto probabile, nel gergo Ipcc corrisponde ad una probabilità superiore al 90%, un bel passo avanti se si considera che solo sei anni fa la correlazione tra attività umane e climate change era data per probabile solo al 60%. «Anche se non abbiamo la cosiddetta certezza assoluta, credo che chiunque avverserà il protocollo di Kyoto e non abbraccerà una seria politica di riduzione delle emissioni di gas serra sarà considerato un irresponsabile» continua Stein. «È tempo di agire, come una comunità globale, animati da spirito solidale, sotto l'egida delle Nazioni Unite, come fossimo un'unica entità. Il problema del riscaldamento globale non può essere risolto se i vari paesi continueranno a seguire politiche particolaristiche».

Ciò che deve accadere, accade
Il vaso di Pandora ormai è stato aperto, e, per quanto l'umanità si sforzerà di correre ai ripari per minimizzare i danni, non sarà più possibile tornare al punto di partenza. A causa del lungo tempo di permanenza dei gas serra nell'atmosfera (centinaia, se non migliaia di anni), gli effetti del global warming non sono infatti reversibili a breve termine. Se anche – scenario ovviamente altamente improbabile – la concentrazione di tali gas fosse stabilizzata ai livelli attuali si assisterebbe comunque a un graduale riscaldamento del pianeta pari a 0,1°C per decennio, per un totale di 1°C alla fine del secolo. Questo riscaldamento inevitabile (chiamato nel gergo della scienza "effetto memoria", o, con un vocabolo inglese, "committed warming"), causerà, tra migliaia di anni, lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia che a sua volta indurrà un innalzamento del livello dei mari di 7 metri. Le previsioni dell'Ipcc sono in realtà ben più allarmanti: l'aumento delle temperature sarà pari a 0,4°C nei soli prossimi 20 anni. Quello che succederà oltre il 2030 dipenderà fortemente da quanti gas serra emetteremo nei prossimi anni. Gli scienziati hanno immaginato sei possibili scenari di sviluppo economico per l'umanità, corrispondenti a valori di CO2 nell'atmosfera pari, nel 2100, a 600, 700, 800, 850, 1250 e 1550 ppm, e sono stati in grado di stimare l'aumento di temperatura sul pianeta associato a ciascuno di essi. Si tratta di una delle tante interessanti novità di questo quarto rapporto che permette di valutare come l'aumento di temperatura a cui andremo incontro nella seconda metà del secolo dipenderà fortemente dalle politiche ambientali e di sviluppo economico che l'umanità nel suo complesso abbraccerà nell'immediato futuro. Potremmo decidere di adottare drastiche misure di riduzione delle emissioni di gas serra che porterebbero a un aumento contenuto pari a circa 1,8°C (1,1°C-2.9°C), ma potremmo anche continuare a ignorare il problema. In tal caso l’aumento sarebbe di ben 4°C, anche se valori più alti, fino a 6,4°C, non possono essere esclusi.
Ad avallare le previsioni contenute nel rapporto Ipcc contribuisce il fatto che quelle dei tre rapporti precedenti si sono dimostrate in massima parte accurate: era stato predetto che, a partire dal 1990, la temperatura sarebbe aumentata di 0,15-0,3°C per decennio e così è stato, con un aumento medio pari a 0,2°C perfettamente in linea con la previsione.
Una cosa è certa: se continuiamo a emettere gas serra al ritmo attuale o superiore, il secolo futuro testimonierà cambiamenti climatici ben più vistosi, e disastrosi, di quelli attuali. Il trend dei cambiamenti climatici è ormai chiaro: aumenteranno le precipitazioni alle alte latitudini, dove piove già abbondantemente, e diminuiranno (anche del 20%) alle basse latitudini, dove l'acqua scarseggia. Nevi perenni e ghiacciai si ritireranno progressivamente. In uno degli scenari più "caldi", la calotta polare, a partire dal 2050, scomparirà completamente durante i mesi estivi, per poi riformarsi in autunno. Le tempeste, i cicloni, le ondate di calore e le precipitazioni violente saranno nel complesso più frequenti e di intensità maggiore. Questo trend sarà già ampiamente apprezzabile nel 2020, e continuerà a delinearsi più o meno gravemente nel corso del secolo.

L'impatto sulle specie viventi
Il 6 aprile 2007 mi trovo a Bruxelles per assistere alla conferenza stampa rilasciata dal secondo gruppo di lavoro dell'Ipcc. Chiarite le cause chimico-fisiche del climate change e appuratane l'origine antropogenica, questa seconda sezione del lavoro è dedicata all'impatto che esso avrà sugli ecosistemi. La conferenza comincia in ritardo, perché il dibattito tra scienziati e delegazioni governative su cosa inserire nel documento finale, iniziato esattamente 24 ore prima, non si è ancora concluso. Quando si tratta di climate change scienza e politica non parlano esattamente la stessa lingua. Ma poi Rajendra Pachauri, presidente dell'Ipcc, con un aspetto provato dalla stanchezza, dà inizio al suo intervento. «L'aumento della temperatura registrato negli ultimi anni ha già influenzato sensibilmente, e in molti casi "scombussolato", i ritmi biologici di un gran numero di specie viventi» avverte. «Misurando con i satelliti l'intensità delle macchie di verde sulla superficie del pianeta, ad esempio, è stato possibile constatare come la primavera giunga ormai in molte regioni con tre o quattro settimane di anticipo. Si è visto inoltre che circa l'85% delle specie hanno spostato verso nord o il loro habitat naturale. Le acque si sono scaldate, ed è soprattutto nei mari a latitudini più alte che si sono registrati i cambiamenti più vistosi relativamente alle popolazioni di plancton, alghe e pesci ».
Il fiore all'occhiello di questo secondo capitolo consiste nella possibilità di valutare l'impatto futuro del cambiamento climatico su scala regionale. Le previsioni più allarmanti riguardano il continente africano, considerato, per mancanza di infrastrutture, il meno capace di far fronte ai cambiamenti climatici. Si stima che per il 2020 un numero imprecisato compreso tra 75 e 250 milioni di persone saranno esposti a scarsità idrica a causa del cambiamento climatico. La mancanza di acqua avrà un impatto terribile sull'agricoltura locale, soprattutto nelle regioni semi-desertiche. Gli scienziati avvertono che in alcuni paesi la resa del settore agricolo interamente dipendente dall'acqua piovana potrebbe dimezzarsi. Tra soli 13 anni, non tra un secolo. Alla fine del secolo, 30% della popolazione costiera sarà costretta ad abbandonare la propria terra, con un costo di adattamento pari al 5-10% del prodotto interno lordo. Lo scioglimento delle nevi sulla catena dell'Himalaya ridurrà drasticamente la disponibilità di acqua dolce anche in Asia. Questo, insieme alla rapida crescita di popolazione e di standard economico dei paesi asiatici, influenzerà più o meno negativamente la vita di circa un miliardo di persone, soprattutto quelle che vivono in prossimità dei bacini dei grandi fiumi. Brutte notizie anche per il continente Europeo. Aumenterà il rischio di inondazioni, l'aumento del livello dei mari e dell'intensità delle tempeste accelererà l'erosione delle coste. Saranno le aree montane le più colpite, con ampia riduzione dei ghiacciai e delle nevi, massicce perdite del settore del turismo invernale, crollo della biodiversità locale (in uno degli scenari a più alta emissione di CO2 si arriva a prevedere la scomparsa di oltre il 60% delle specie montane). In Italia, e in generale nei paesi dell'Europa meridionale, diminuirà la produttività del settore agricolo, aumenterà il rischio di siccità estive, incendi, e si prevede una forte flessione del settore turistico estivo. «Un messaggio importante di questo report» sottolinea Stein «è che un bambino nato oggi in Europa o in Nordamerica, e un bambino nato oggi in Africa, in Asia o in Sudamerica saranno colpiti in maniera completamente diversa dal cambiamento climatico. Si stima che l'Africa vedrà oltre il 30% delle sue infrastrutture costiere distrutte dall'innalzamento dei mari. Un bambino africano assisterà con tutta probabilità all'insorgere di nuove malattie, a siccità terribili, e si troverà costretto, forse, a trasformarsi in un "rifugiato ambientale", abbandonando la sua terra natale».
Osservando la figura Spm1, dove le conseguenze del global warming sono rappresentate in funzione dell'aumento medio di temperatura espresso in gradi centrigradi rispetto al 1980, ci si rende ben conto del motivo per cui l'obiettivo da centrare per scongiurare gli scenari più catastrofici sia quello di un aumento medio non superiore ai 2°C. Con aumenti di 3°C e più, le conseguenze si fanno decisamente più gravi e, soprattutto, imprevedibili. A titolo di esempio, si stima che per un aumento di temperatura compreso tra i 3 e i 4°C oltre il 30% delle specie viventi rischia l'estinzione; oltre i 4°C gli scienziati prevedono l'estinzione di oltre il 40% delle specie viventi, con imponderabili conseguenze sui fragili equilibri dei biosistemi.
Se è vero che parte degli effetti del cambiamento climatico sono ormai inarrestabili, è vero anche che siamo ancora in tempo – sottolineano a più riprese gli scienziati del gruppo di lavoro di Bruxelles – per evitare i suoi effetti più disastrosi per l'umanità e per gli ecosistemi. «Ciò che irrita di più è sapere che in realtà potremmo ancora risparmiare al pianeta gli scenari più catastrofici» commenta a caldo Lara Hansen del Wwf a conferenza conclusa, «ma occorre fare in fretta. L'Ipcc fa presente che la nostra finestra d'azione si sta chiudendo a velocità crescente: 10-15 anni è tutto il tempo che ci rimane per invertire la rotta».

Se volete consultare l'impaginato dell'articolo lo trovate qui.

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3 Comments:

Blogger Antonio Candeliere said...

ottima riflessione

18 ottobre, 2007 09:12  
Anonymous Anonimo said...

necessita di verificare:)

15 novembre, 2009 06:33  
Anonymous Anonimo said...

Perche non:)

27 novembre, 2009 02:43  

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