Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

6/13/2007

Pubblicità progresso?

La prima puntata dedicata al mondo della pubblicità, tratta da un'inchiesta ospitata su Slowfood 27. L'impaginato dell'articolo lo trovate qui.



Una storia in cinque cartelle della pubblicità alimentare in Italia sarebbe un’assurdità, un pasto in pillola. Meglio focalizzarne il punto a partire dal quale comincia la nostra storia, prima del quale, tra cartelloni e voci della radio, si avvertivano i segni di un coordinamento tra produzione, comunicazione e consumo, ma non le tecniche di persuasione americane e la loro pervasione odierna.
Con réclames, affiches e dépliants: la pubblicità ha incominciato, nell’inizio del Novecento, a parlare francese, e i migliori artisti italiani, come il livornese Leonetto Cappiello, disegnavano a Parigi. Dopo la seconda guerra mondiale essa ha cambiato vocabolario, mettendo a fuoco le strategie, fissando il budget, programmando uno spot. Si sono visti cartelloni fluorescenti o montati su automobili per promuovere un dentifricio, poi la televisione ha risucchiato ogni bene di consumo.

Linguaggio obsoleto
Ma analizzare la pubblicità alimentare, significa non solo studiare i supporti delle campagne o comparare i manifesti della Nestlé prima e dopo la seconda guerra mondiale, ma anche cogliere la specificità di un mercato di cui solo una parte accedeva e accede alla promozione, restando esso ancora formato da quelle che, con nostalgia, sono oggi evocate con il termine di piccole aziende, filiere corte, consumi di nicchia. Certo è che, dagli anni Cinquanta, dopo una fallimentare politica autarchica, l’industria alimentare si è riorganizzata con gli obbietivi che oggi ben conosciamo, ed è dagli stessi anni che comincia il declino della varietà in campo agricolo e zootecnico e nell’artigianato, un declino sfociato nella reazione dei gastronomi all’agribusiness.
Gli anni Cinquanta vedono da un lato il rilancio della grande industria, l’esodo della popolazione dalla montagna e dalle campagne verso le città del nord, le prime indagini Doxa sui consumi alimentari e la progressiva scomparsa delle osterie, intese come mescite di vino. Dominano nel panorama pubblicitario: la velocità (Supercortemaggione, Vespa, Lambretta), la salute (Binaca, Cibalgina) e la chimica (Ddt, aerosol e, tra i detersivi, il Lauril). Per quanto riguarda il cibo, oltre ai prodotti Perugina ben noti nel ventennio, tutti conoscono il formaggino Mio della Galbani o il Cremifrutto Althea, “la merendina preferita” nel 1952 in vendita con il regalo di un francobollo. Ma non bisogna sopravvalutare i segnali del mercato e la cultura dei campioni di riferimento, come se la gran parte dei piccoli produttori, dei commercianti di vino, non esistesse. La Doxa nel 1950 ha rivelato che alla domanda: «Quali sono i vini bianchi da pasto che preferite?» il 55% degli intervistati non ha saputo fornire un solo nome, mentre il 14% ha parlato di «vino locale, nostrano, comune1».
Invocare la ricostruzione del paese, i redditi modesti del terziario, il ritardo culturale delle campagne, la miseria nera dei contadini siciliani che Danilo Dolci aveva scelto di condividere, non spiega tuttavia come la pubblicità agisse in modo così lacunoso e, sempre nei centri urbani o sulle grandi arterie stradali, continuando a offrire prodotti con linguaggi spesso obsoleti, nella nuova repubblica. Leggiamo alcune etichette di vini e liquori; esse sono, negli anni Cinquanta, d’altri tempi: l’eterno castello della casa vinicola del Barone Ricasoli, i tre valletti Sarti o la femme fatale verde come l’assenzio, dell’anisetta Meletti. Anche a consumatori analfabeti, parchi e parsimoniosi, i linguaggi della pubblicità avrebbero dovuto far sognare un futuro, non il passato remoto, le mode dell’ancien régime, della belle époque, del liberty. Ma in Italia avviene il contrario, la modernità spaventa chi beve vino e consola chi prende l’aperitivo, e, paradossalmente, mezzo secolo dopo, contadini e artigiani diverranno attori, in quanto rappresentanti di economie alternative, di tradizioni estinte.

Tci: credere non dalle prove ma dal piacere
Per tutti gli anni Cinquanta, il Tci ristampa la Guida gastronomica d’Italia del 1931, omettendo la pubblicità che aveva avuto inserzionisti quali Buitoni, Sperlari, Aurum, Olio Sasso e Fiuggi. Per ciò stesso, la guida appare come l’altra metà dell’industria alimentare, la parente povera, e non più la sposa autarchica di un regime che, nella sua promozione, accorpava il bifolco, il milite e l’industriale. Nel 1969 uscirà, con il medesimo titolo, la seconda edizione aggiornata (con pubblicità di soli vini ed enti turistici). Il richiamo, ben noto, all’editoria del Tci, ha qui una ragione strumentale. A coordinare e firmare la nuova edizione è Felice Cùnsolo, autore, nel 1953, di un volume su Il potere della pubblicità2 in cui se ne traccia la storia e se ne delineano le strategie. È un professionista stimato del campo e un uomo colto che non esita a scegliere per epigrafe di quel volume la frase di Pascal: «Les hommes sont toujours emportés à croire non par la preuve mais par l’agrément» (gli uomini sono portati a credere non dalle prove ma dal piacere). Piccola economia e degustazione da un lato – Cùnsolo enfatizza l’importanza dei vini quali gli indicatori locali della qualità – e industria alimentare e consumi dall’altro. Ma un pubblicitario può essere anche gastronomo? Cùnsolo risponde di sì, a patto che sappia distinguere i ruoli, svestendo la giacchetta del cartellonista quando indossa la casacca del degustatore e del socio del Touring.
Che siano due mestieri diversi lo si capisce dalla materia stessa cucinata e, soprattutto, dal modo di scegliere o di offrire il cibo. Il capoufficio propaganda dell’Ente Nazionale Risi, Mazza, dopo un sondaggio Doxa (febbraio 1950), lancia una campagna nelle scuole, presso le massaie, distribuendo fascicoli dal titolo “Sai cucinare il riso?” e capta l’attenzione della società più determinata a rinnovare un paese semidistrutto, con immagini suggestive. In una, c’è una giovane donna che telefona sdraiata, gonna blu corta e tacchi alti, una divina creatura con un sacchetto di riso accanto. Che significa quel sacchettino di tela? Salute, gioventù e soprattutto una bella linea. Era così che si sarebbe dovuto mangiare l’icona e il riso in Italia. Non era così che lo si consumava. Alla fatale domanda: «Per quale ragione non si mangia riso nella sua famiglia?», il 15% degli abitanti delle isole rispondevano laconicamente: «Preferiamo la pasta», e il 52%, in tono ancor più cupo: «Piace poco a tutti3». Mazza era proprio sicuro che la bella signorina sdraiata, con il telefono all’orecchio, avrebbe convinto all’acquisto quel 52% di siciliani e di sardi e che non sarebbe stata lei stessa oggetto di diffidenza e sospetto?
Pubblicitario e consumatore non hanno sempre la stessa nozione di qualità, anzi esistono fasce di consumatori non ancora educati o renitenti al messaggio e, quello che è più grave, nel 1969, operatori della pubblicità che ritengono preferibile, o qualitativamente migliore, un prodotto senza immagine, un san Carlin della Valsassina o una robiola di Roccaverano, alla forma di Belpaese Galbani con tanto di abate Stoppani. Quest’ultimo prodotto subisce un restyling curioso alla voce melzo della guida del 1969, perdendo la sua paternità industriale: «Melzo. Pesce d’Adda. Rane. Lumache. Formaggio belpaese, robiole, crescenze, burro. Prosciutti, cresponi, zamponi, cotechini», come se nessuna industria lattiero-casearia avesse sede in quel paese4. A Melzo, non ci sono industrie, solo latticini.

Grandi sistemi, piccoli sistemi
Ma, dopo quella del 1931, la guida gastronomica del 1969, comporta qualche pagina di pubblicità. La sua raccolta ha cambiato totalmente indirizzo, e non vi troviamo più le grandi industrie, Perugina o Buitoni, ma vini e aziende turistiche. L’approdo di un vino negli spazi finali e fuori testo di questa guida, rappresenta non solo una valutazione d’eccellenza da parte del curatore ma la scelta di campo di un’azienda che preferisce avere fianco a fianco vini senza il nome del produttore, formaggi senza confezione e senza carosello, che non bibite americane e aperitivi piemontesi. Infatti leggiamo i nomi di questi inserzionisti: Chianti Ruffino, Michele Mastrobernardino, Rivera Rosé, Ghemme di Guido Ponti, Vini d’Ischia d’Ambra, Vini Corvo, Marchesi di Barolo.
Il divorzio tra pubblicità e specialità enogastronomiche, tra grande e piccola produzione, data a partire dagli anni del boom economico, ed evolve, nelle case italiane, con un prodotto industriale che mangia una parte sempre meno importante del salario, e un prodotto locale che si rarefà e vale, in termini oltre che monetari, culturali, sempre di più. La réclame delle aziende turistiche, nella guida del 1969, mostra chiaramente che il raccordo tra i due sistemi, grande e piccolo, industriale e artigianale, non trova interpreti efficaci nelle pubbliche amministrazioni. Queste adottano i toni della peggiore ispirazione, pensando di accalappiare il turista con miraggi e banalità. La Tremezzina (Provincia di Como) vanta inesistenti «risotti alla comacina», erotici «carpioni del golfo di Venere» e «i brasati e gli stufati di antica memoria lombarda», tanto antica da essere totalmente scomparsa sulle rive del Lario. A Gorizia, la tavola è solo “genuina”, un aggettivo che sa d’igiene e di scaramanzia, mentre in Abruzzo la cucina è addirittura “patriarcale”. Le aziende turistiche promuovendo male, rendono ancor più inefficace la pubblicità dei prodotti che sono in realtà, voci di menù, piatti da trattoria, specialità della casa. Un’associazione presente su tutto il territorio nazionale come il Tci riempirà il ruolo di mediatore tra le diverse realtà della produzione e trasformazione degli alimenti.
Non mancano nelle campagne dell’inizio anni Cinquanta, segnali di una sensibilità alla sfera gastronomica – in particolare la campagna finanziata dalla Regione Sicilia per promuovere agrumi e vini, gli uni con richiami alle proprietà salutari, gli altri con le terre di produzione e con abbinamenti al cibo –, ma la pubblicità vede nei contadini solo consumatori irrecuperabili, e nei sapori delle vivande la parte grezza e volatile di un bene di consumo. Il divorzio, e la figura di Felice Cùnsolo ne è la miglior testimonianza, si è ormai consumato. Gran parte della storia successiva della promozione cercherà di rimescolare le carte, travestendo gli attori da contadini, inventando mulini e fandonie, ribattendo fino alla nausea il ruolo della famiglia media italiana o enfatizzando le trasgressioni sessuali presenti in una bevanda alcoolica, senza recuperare una visione complessiva dell’ambiente, dell’agricoltura e del consumo alimentare, asservendola a un marketing del profitto, con l’idea che tanto gli uomini sono portati a credere non dalle prove ma dal piacere o da quello che ne fa le veci. Alberto Capatti

Note
1. Pierpaolo Luzzato Fegiz, Gli italiani e il vino Edizioni Doxa, 1952, p. 38.
2. Felice Cùnsolo, Il potere della pubblicità, Organizzazione Tipografica Pubblicitaria, 1953.
3. Pierpaolo Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia, Giuffrè, 1956, p. 77.
4. Guida gastronomica d’Italia di Felice Cùnsolo, Tci, p. 94.