Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

12/18/2006

Siriò, il caffè di Bruxelles (di Maria Tarantino)

Storia di un locale fondato da Francesco Cirio nel 1884, dove nacque l’half & half, l’aperitivo simbolo della capitale. Pubblicato su Slowfood 23, lo trovate qui.

In ogni città ci sono luoghi simbolici, legati alla storia e alle tradizioni. E poi ci sono i luoghi che la gente ama raccontare, quelli con cui si identifica e che ha fatto propri. Sono luoghi meno aulici, forse, lontani dalle chiese e dai musei, ma più vicini alla quotidianità delle persone. Dopo tutto, ci si affeziona a un luogo quando lo si può frequentare, vivere e – perché no? – anche gustare. Non è un caso se la storia che si disegna attraverso le abitudini e i sentimenti spesso si cristallizza nel profumo di un caffè o nella fragranza di un dolce.
È il caso di Bruxelles, capitale europea dal tempestoso passato urbano. Pioniera in una pratica urbanistica poco felice, la “brussellizzazione”, che ha prodigato la distruzione di pezzi importanti del patrimonio architettonico per fare posto a un’accozzaglia disordinata di edifici non sempre riusciti e a enigmatici spazi vuoti, delimitati da un reticolo di tubi di ferro che servono a evitare che gli edifici adiacenti collassino gli uni sugli altri.
Bruxelles è la capitale della comunità fiamminga, nonostante l’85% della città parli francese, una realtà linguisticamente scissa, teatro perenne di una lotta silenziosa tra le comunità linguistiche del Belgio, mentre tutto intorno cresce e si afferma la presenza degli stranieri, degli immigrati nordafricani, di quelli dei paesi dell’Est e soprattutto del piccolo esercito di burocrati e diplomatici legati alla Comissione europea, alla Nato e alla finanza internazionale.


Genesi dell’half & half
Quando si parla di luoghi simbolo a Bruxelles, il più ricorrente è la statua di Manneken Pis, il bambino che si era perduto in città una paio di secoli fa e che venne ritrovato dopo alcuni giorni mentre faceva pipì. Immortalato in una statua, il protagonista della vicenda è diventato una meta obbligata per i turisti di tutto il mondo. Inondato dai flash, è una presenza folclorica più che simbolica, un oggetto curioso. Il cuore della città è altrove, tra le abitudini della gente, intrecciato alle cose che ama fare, bere e mangiare. Come le cozze con le patatine fritte, le praline, la birra. Ma se c’è un momento gastronomico che ha saputo raccogliere la natura contraddittoria della capitale belga, questo è senza dubbio l’aperitivo simbolo della città: l’half & half. “Metà e metà”, proprio così, come succede nei rapporti di forza, quando si raggiunge un compromesso equo. Metà vino bianco dolce e metà spumante, l’half & half segna l’incontro di due nature diverse, ma affini, come quelle che si ritrovano nella capitale. La tradizione vuole che venga preparato al tavolo, davanti al cliente e che a inventarlo sia stata la barista di un caffè Art Nouveau, a due passi dalla Borsa, una sera in cui non aveva abbastanza spumante per riempire il calice. Pare quindi che abbia sostituito lo spumante mancante con vino bianco dolce e che il risultato abbia riscosso un tale successo da decretare all’istante la nascita di un nuovo aperitivo.
Il locale dove nasce l’half & half è Le Cirio (pronunciato “Siriò”), uno dei ritrovi alla moda dell’alta borghesia. Siamo alla fine dell’Ottocento. Le strade intorno alla Borsa pullulano di personaggi importanti. Circa 2400 persone vengono qui ogni giorno per lavorare. I caffè sono frequentati dagli uomini d’affari e dagli agenti di borsa. Ai tavoli si beve soprattutto champagne. Gli autisti aspettano in macchina. Non a caso, il nome dell’aperitivo simbolo della capitale belga è in inglese, una sorta di lingua franca che gli dà un tocco “chic cosmopolita”.
La storia dell’aperitivo simbolo di Bruxelles non si esaurisce con un ibrido alcolico-linguistico, perché il locale dove è stato inventato, quel “Siriò” che la pronuncia francese trasforma in una stella lontana, è un Cirio dal sapore italiano. Nel bicchiere di half & half c’è dello spumante, spumante italiano. E Le Cirio si riferisce proprio a quel Francesco Cirio che siamo abituati ad associare ai pelati e che molti, erroneamente, credono di origini napoletane per via degli stabilimenti per la conservazione dei pomodori, che si trovano in Campania.

Razza piemontese
In realtà Francesco Cirio è piemontese. Nasce a Nizza Monferrato nel 1835. Inizia a lavorare nei mercati di Torino, in piazza Bodoni e a Porta Palazzo quando è ancora un ragazzino. Acquista e rivende ortaggi e si rende subito conto che per guadagnare occorre trasportare i prodotti sulle piazze che hanno prezzi più alti. Grazie all’amicizia con un alto responsabile delle ferrovie italiane, il commendatore Amilhau, Cirio trova il modo di trasportare le merci a Nizza Marittima e da lì a Parigi, dove i prezzi sono fino a otto volte superiori a quelli di Torino.
Ha appena vent’anni quando investe i primi guadagni nell’acquisto di due grandi caldaie. All’inizio dell’Ottocento, in Francia, Appert aveva utilizzato il calore per prolungare la durata degli alimenti. Nonostante Francesco Cirio sia analfabeta a non abbia nozioni di chimica, ha capito benissimo che la conservazione della verdura, rendendo i prodotti disponibili fuori stagione, avrebbe rivoluzionato il mercato e cambiato radicalmente il modo di mangiare delle persone. I primi tentativi di Cirio a Torino sono con i piselli, che hanno una stagione breve e un prezzo relativamente elevato. Il fatto di poterli acquistare in barattoli di vetro riscuote un successo enorme. Cirio estende il procedimento di conservazione ai fagioli, alla frutta e alla carne. La carne in scatola, venduta a un prezzo inferiore di quella fresca, diventa disponibile per larghe fasce di consumatori. Cirio esporta vini, formaggi e uova in tutta Europa. Non solo, dopo l’unità d’Italia apre i primi stabilimenti in Campania e si lancia in una serie di iniziative per la bonifica delle zone paludose nel Ferrarese, nelle paludi pontine, nella Basilicata ionica. In particolare, stabilisce stretti legami con i contadini, che coltiveranno i prodotti di cui hanno bisogno gli stabilimenti in cambio di condizioni di acquisto favorevoli e di anticipi sui raccolti.
Grazie al trasporto ferroviario, il volume di affari delle sue aziende cresce vertiginosamente. Nel 1869 partono di 10 vagoni ferroviari, nel 1871 sono già 500, 2000 nel 1876. A rafforzare l’immagine di Cirio contribuiscono una fitta rete di filiali, dagli Stati Uniti all’Australia, oltre a 18 empori sparsi in tutta Europa: Bruxelles, Berlino, Francoforte, Monaco, Parigi, Zurigo, Mosca, San Pietroburgo, Praga, Amsterdam, Varsavia, Torino, Milano, Bologna, Napoli, Firenze, Verona e Pescara.
Francesco Cirio arriva a Bruxelles nel 1864. Apre un magazzino di generi alimentari nella Rue des Eperonniers, a pochi passi dalla centralissima Grand Place. Nel 1884 chiede al Comune di Bruxelles di poter aprire un locale di fianco alla Borsa, da destinare per metà a negozio e per metà a salone di degustazione. Gli aneddoti sull’intraprendenza di Cirio non mancano. Si racconta che avesse suggerito a un rappresentante tedesco, che non riusciva a piazzare un carico di cavolfiori arrivati dall’Italia, di incentivare le vendite regalando bottiglie di vino. Ma Francesco Cirio non è semplicemente un bravo venditore. I suoi prodotti partecipano alle esposizioni internazionali di prodotti alimentari che si tengono nelle città di tutta Europa. A Vienna, Parigi, Anversa, vincono riconoscimenti importanti.

Dissoluzione di un impero
Nonostante le molteplici attività e iniziative, l’eredità di Cirio si dissolve rapidamente dopo la sua morte, avvenuta nel 1900. Dei 18 empori, quello di Bruxelles è l’unico ad essere sopravvissuto fino ai giorni nostri praticamente intatto. Degli altri, non c’è nemmeno l’ombra, a parte una vecchia pubblicità della fine dell’Ottocento, dove si legge l’indirizzo del salone di Londra, situato al numero 25 di Regent Street e una foto dell’esterno dell’emporio di Berlino, sull’Alexanderplatz.
L’attuale proprietario di Le Cirio, Danilo Parmiggiani, racconta come un suo cliente gli avesse telefonato per avvertirlo di avere visto la foto dell’emporio berlinese esposta nella vetrina di un antiquario.
Quando la famiglia Parmiggiani acquisisce il locale, nel 1952, il negozio di prodotti italiani non esiste già più e Le Cirio funziona come brasserie. Nella cantina Parmiggiani rinviene un enome ovale rivestito di velluto scuro nel quale sono incastonate una settantina di medaglie vinte da Cirio nelle esposizioni internazionali tra il 1864 e il 1877. Fino al 1970, Le Cirio rimane il tempio dello spumante italiano. Ogni mese se ne consumano tra le 1600 e 1700 bottiglie, tutte vendute al bicchiere, più un migliaio di bottiglie di vino bianco. Poi il consumo di vino inizia a diminuire sorpassato dal crescente interesse per le birre artigianali.
Basta fare un salto nel caffè Art Nouveau nel centro di Bruxelles, quello che tutti credono tipicamente belga, per rendersi conto che in realtà assomiglia molto ai caffè torinesi del secolo scorso. Non è difficile immagine che all’inizio Le Cirio dovesse apparire come un luogo esotico. Fra le tappezzerie di cuoio arabescato e gli specchi, sotto la luce a gas di imponenti lampadari di ferro battuto, si consumava l’incontro dei belgi con i vini, le conserve e i latticini italiani. Da allora l’arredamento del locale non è cambiato. I lampadari sono stati adattati alla corrente elettrica. Le teiere e i vassoi argentati con il marchio “Cirio” non sono più utilizzati ma fanno bella mostra da una delle vetrine del locale. Il bancone e gli scaffali sono firmati da un ebanista italiano, un certo A. Ferro. In cima a uno degli scaffali troneggia addirittura la versione scultorea del simbolo del Fernet Branca, con l’aquila che afferra il mondo con gli artigli. A una delle pareti è ancora appesa l’insegna del Vermouth Bellardi, con l’indicazione “Torino”.
Eppure è come se tutte queste tracce di italianità si fossero assopite. Lo sguardo di chi entra nel locale non vede l’impronta elegante dei caffè torinesi del secolo scorso. Forse ne sono rimasti troppo pochi e forse non è questa l’immagine che si ha all’estero dei luoghi di ritrovo italiani. Le Cirio è cresciuto oltre la semplice italianità delle sue origini. Negli anni è rimasto uguale. A cambiare è stato tutto il resto. Le persone che sono passate da qui, le vicende a cui ha fatto da sfondo. Come gli schizzi che il pittore Marcel Stobbaerts eseguiva sul retro dei sottobicchieri di cartone e poi regalava ai camerieri o le foto del cantante Jacques Brel, che qui ha girato il film La bande a Bonnot. Le memorie brussellesi si sono sostituite a quelle italiane e Le Cirio è trasmigrato in una sfera di significato nuova.

12/14/2006

Creare (di Paolo Marchi)

Così come le tradizioni hanno valore quando sono legate a produzioni e stili di vita reali, quando aiutano a mantenere le campagne, le coste e le montagne vive, così la creatività deve essere la conseguenza di idee dirette del cuoco. Non basta adottare tecniche, presentazioni o accostamenti altrui, questa è solo simil-creatività. Una riflessione di Paolo Marchi su Slowfood 23, che trovate qui.

Materie prime di qualità e idee proprie, questo chiedo, in estrema sintesi, a un cuoco. Che quegli ingredienti siano del territorio in cui vive e lavora o che arrivino da lontano, ma siano sempre espressione di una qualità autentica, mi importa meno, così come non mi hanno mai emozionato le simil-tradizioni, quei piatti proposti solo perché se sei in Valtellina “devi” mangiare pizzoccheri e in Toscana la fiorentina e poi magari i primi sono fatti con grano cinese e le seconde con carni dalla filiera incerta come la guida in una notte di nebbia.
In prima battuta la qualità, aspetto che si dovrebbe dare per scontato da un certo livello in su, ma che non è affatto così. Più mi sforzo di apprendere e più mi convinco che esista una qualità assoluta nella spesa (Assenza, Cracco e Pierangelini per fare tre esempi in zone d’Italia ben diverse tra loro) e, a scendere, una qualità per fasce di prezzo che purtroppo investe in pieno anche le insegne di pregio e conti stellari. La pressione della grande industria alimentare è spaventosa e le scorciatoie che vengono proposte ai cuochi e ai pasticcieri – animali già lavorati e porzionati, farine che si panificano da sole, gelati alla frutta senza frutta, verdure così perfette da sembrare di plastica (e forse lo sono pure) – sono tali e tante che è sempre difficile non imboccarle.

Etica professionale
Chi non ha una visione etica del proprio lavoro, chi, pur potendo adottare una piccola ma qualificatissima lavorazione, la scarta per comodità e si fa spedire la spesa dal distributore “tutto pronto – tutto subito”, chi va sul sicuro e non rischia mai un ingrediente insolito, chi si limita a essere “culinariamente corretto”, attento a proporre quello che il mercato richiede – ad esempio il tonno appena scottato fuori e ancora crudo dentro o il “famigerato” tortino di cioccolato dall’anima liquida – costoro andrebbero penalizzati nei giudizi di tutti e non solo nei miei perché ormai non si può più essere nel mondo della ristorazione senza chiedersi per davvero come sta il mondo reale, non si può credere che certi problemi non ci riguardino, continuando a consumare come se i mari non fossero malati e le terre e l’aria pure.
E, come si può essere standarizzati nelle scelte dei prodotti, gli esempi che ho appena fatto stanno lì ad avvisarci che si può essere conformisti e prevedibili anche a livello di creatività, basta avere imparato la lezione copiando più o meno bene l’Adrià o lo Scabin di turno e fare poi affidamento sulle scarse conoscenze sia della clientela media sia, purtroppo, dei mass-media che troppo spesso si avvicinano alla ristorazione solo perché come argomento è sciaguratamente trendy.
Come le tradizioni hanno valore quando sono legate a produzioni e stili di vita reali, quando aiutano a mantenere le campagne, le coste e le montagne vive, così la creatività deve essere la conseguenza di idee dirette del cuoco. Non basta adottare tecniche, presentazioni o accostamenti altrui, questa è solo simil-creatività. Il cuoco deve diventare un traino per l’economia della sua area-regione-nazione. Non si può pretendere di combattere i fast food e le mense, se i ristoranti stellati non sono i primi a rifiutare la massificazione della ristorazione, procedendo avanti o anche indietro nel tempo alla ricerca di momenti e modelli che possono rivelarsi di nuovo utili esattamente come i nuovi macchinari che la scienza inventa e adatta alla cucina (sempre che non diventino il soggetto del menù, a scapito della materia prima).
È per questo che io parlo di cucina d’autore e gradisco sempre meno la suddivisione fra tradizionale e creativo, a ben guardare sempre labile nel tempo perché, in fondo, ogni rivoluzione riuscita prima o poi si imborghesisce e diventa conservazione di nuovi equilibri e privilegi e, prima o poi, si deve difendere dal nuovo che preme per scavalcarla.

12/13/2006

Valorizzare (di Luigi Cremona)

La scelta e la disponibilità degli ingredienti che è comunque alla base di ogni grande cucina è indissolubilmente legata al territorio di origine. Un grande ingrediente può fare un grande piatto, mentre un grande chef, da solo, no. Una riflessione di Luigi Cremona su Slowfood 23, che trovate qui.

Vita da chef! Quante cose chiediamo a un cuoco che si rispetti? Saper cucinare è ormai solo il requisito di base. Poi un bravo chef deve saper fare bene la spesa e quindi conoscere tutti i prodotti (solo quelli tipici in Italia sono qualche migliaio), deve gestire e spesso reperire il personale, deve aggiornarsi sulle normative in atto, deve tenere in ordine ed efficiente la sua cucina, deve essere informato sulle attrezzature tecnologicamente più avanzate, deve saper parlare con i colleghi di tutto il mondo almeno in inglese e francese (e negli ultimi tempi anche in spagnolo), deve saper usare il computer e anche comunicare la sua immagine e quella del ristorante, deve partecipare alle più importanti manifestazioni ed eventi del settore (che ormai sono, anche restringendo, almeno una decina). Insomma, non è una vita facile e banale. A questo si aggiungono i rischi della categoria, come la chiusura dell’attività, il cambio di gestione e così via. È vero che sono rischi comuni o similari a quelli di tutte le categorie professionali, ma nella ristorazione il ritmo dei cambiamenti è spesso frenetico.

Cucine aperte
Vale la pena essere chef oggi? Pensiamo di sì, le responsabilità come abbiamo visto sono tante e spesso magari la retribuzione non compensa tutti i disagi che la professione comporta, come gli orari assurdi, l’impossibilità di fare ferie e vita “normali” eccetera. Però è una professione “moderna” e “centrale” del mondo di oggi, cresciuta enormemente negli ultimi anni.
Fino a pochi anni fa le cucine erano luoghi chiusi, sporchi, nascosti agli occhi della gente e solo chi era in sala era vestito bene, sapeva parlare, riceveva lodi e onori (e laute mance). In cucina bastava un analfabeta o poco più. Oggi tutto è cambiato, la cucina si è aperta (anche in senso letterale) verso la sala e la clientela, e lo chef è uscito fuori per diventare un moderno protagonista della vita sociale. Dalla sua parte ha una serie di punti a favore: si pranza due volte al giorno, la tavola del ristorante ha sostituito ormai il focolare domestico ed è diventata il luogo preferito di incontro e convivialità (e a volte anche di business). Insomma, essa occupa un posto centrale nella vita quotidiana, sia familiare sia di lavoro. Ma non basta, non è solo location privilegiata, ma anche protagonista dei nostri stessi interessi. Non solo andiamo a mangiare fuori, ma il mangiare è entrato nelle nostra conversazione, assumendo un ruolo sempre più importante.
I motivi sono molti. La sicurezza alimentare, la forma fisica e, infine, il gusto. Merito grande di Slow Food avere ridato pienezza e senso moderno a questa parola, avere donato dignità attuale al piacere fisico e gaudente del mangiare.

Tecnica e materie prime
Di tutto questo mondo lo chef è diventato il protagonista quasi assoluto. È un bene o un male? Pensiamo sia un bene. Se uno chef si sente motivato, oltre che economicamente, anche da un punto di vista di immagine e cultura sarà lui il primo a spaccarsi l’anima per farsi valere e notare. A tal fine ha di fronte a sé due strade principali. La prima è quella “tecnica”: io chef faccio vedere quanto sono bravo nella manipolazione, cerco di sbalordire i miei clienti con la mia abilità, che è il valore aggiunto alla materia prima. La seconda è quella di curare particolarmente la materia prima, cioè gli ingredienti alla base della cucina. Negli chef migliori convivono le due strategie.
La tecnica non conosce il localismo, anzi prospera negli ambienti internazionali e presso le nazioni più abbienti, questo perché la qualità e il costo delle attrezzature e della ricerca, si riflettono inevitabilmente su un prezzo di uscita alto, che trova maggiori consensi in una clientela di elevate risorse economiche. A perseguire questa strada dovrebbero essere, quindi, soprattutto gli chef che operano in nazioni forti economicamente e deboli per varietà e profondità del loro retroterra agroalimentare.
La scelta e la disponibilità degli ingredienti che è comunque alla base di ogni grande cucina è, invece, indissolubilmente legata al territorio di origine. Un grande ingrediente può fare un grande piatto, mentre un grande chef, da solo, no.
Il vantaggio di questa seconda strada è che il prezzo può essere più competitivo, ed è quindi più facilmente applicabile su scala mondiale. Utilizzare gli ingredienti locali è spesso economicamente più vantaggioso, più salutare per via della freschezza delle materie prime e più conveniente da un punto di vista sociale per la ricaduta positiva sulla categoria degli artigiani del settore. Ne derivano una serie di vantaggi: la valorizzazione delle risorse umane e produttive locali, il mantenimento delle colture e delle culture autoctone, la comunicazione all’esterno dei valori e delle specificità di quel territorio che beneficiano di una forma di pubblicità intrinseca spesso gratuita. I media premiano, infatti, le novità del settore e sono sempre desiderosi di segnalarle.

L’agricoltura di piccola scala
Tra i migliori assaggi della nostra vita citiamo senza dubbio quelli dei mercati dei villaggi indiani, dove in piccole baracche improvvisate si cucinano preparazioni basiche e semplici utilizzando, però, i magnifici prodotti freschi che al mattino sono portati dalla gente dei campi intorno. Il vero gusto nasce nei mercati veri e non ha necessariamente bisogno di grandi investimenti. Per questo riteniamo che l’omologazione del gusto sia una vera minaccia, perché è un’economia non sempre necessaria e molto spesso non è nemmeno un’economia.
La difesa dell’ agricoltura di piccola scala diventa così uno dei modi, crediamo il migliore, per emergere, per farsi notare. L’interesse di uno chef e, ancora di più di un cuoco di un paese povero (dal punto di vista di reddito nazionale), coincide quindi con gli interessi di chi condivide questi valori. Se i cuochi capiscono che rivolgersi al loro retroterra è azione non solo meritoria per la comunità ma, egoisticamente parlando, anche produttiva al fine di valorizzare la propria professionalità, allora riuscirebbero effettivamente a incidere a livello globale. Sono, infatti, centinaia di migliaia e tutti assieme costituiscono un esercito invincibile che non ha confini.
Una tecnica al limite può essere facilmente copiata in serie illimitata, e tutti possono entro certe possibilità riuscire a stupire l’incolto (ma quanto a lungo, se nel cervello non hanno poi un vero estro?), mentre i veri prodotti sono sempre in edizione limitata e con scadenza temporale. Uno chef che sposa questa causa riesce a trovare facilmente una sua identità e sfugge egli stesso alla noia di un lavoro opaco e ripetitivo.

12/12/2006

Raccontare (di Marco Bolasco)

Il cuoco è un’interfaccia, l’anello di una catena, un divulgatore che usa testa e mani. Può determinare crescite, può spostare l’attenzione, può valorizzare o sostenere piccole economie agricole. O, ancora, può essere portavoce di una cultura altra, di una terra o un sapore poco conosciuti. Una riflessione di Marco Bolasco su Slowfood 23, che trovate qui.

La cucina è cultura dell’ibridazione. Storia di fusioni, mescolanze, reazioni, novità, contraddizioni. Il ruolo dello chef è coscienza attenta di questo contesto.
Come ha detto più di una volta Ferran Adrià e come si è tanto dibattuto su queste pagine e in numerosi appuntamenti “slow”, è difficile stabilire il significato attribuito oggi a parole come territorio, tipicità, tradizione. Stabilire i confini geografici o quelli temporali che definiscano l’identità di un prodotto, è difficile e importante al tempo stesso. Ed è proprio lo chef, in molti casi, colui che può e deve farlo. Attraverso il suo rapporto con i prodotti e il lavoro in cucina. Già, perché se è fuori discussione il fatto che un grande chef debba usare ottime materie prime è altrettanto vero che è l’intervento del cuoco ad aggiungere significato, ad aggiungere contenuto alle materie. Come si ostina a ripetere Gualtiero Marchesi, citando Mahler, «in una partitura c’è tutto, tranne l’esecuzione».
La valutazione della qualità delle materie prime all’interno della ristorazione ha significato per anni attribuire a prodotti rari, di valore e di scarsa accessibilità, il primato della qualità assoluta. È la cosiddetta “cucina borghese”, che porta alcuni gourmet a considerare ancora oggi un buon pranzo solo quello in cui ci sia almeno un po’ di astice o di foie gras.
Oggi parlare di materie prime di qualità significa, invece, parlare anche di ingredienti semplici, di prodotti agricoli rari come una buona patata o un latticino dimenticato. In questo il progresso e l’evoluzione ci hanno aiutato. E in questo il ruolo dello chef e la modernizzazione della cucina e delle tecniche hanno fatto molto per rompere gli schemi e farci scoprire nuovi orizzonti.

Trasparenza
Ecco, dunque, la parte più interessante del mondo della cultura materiale, anche per un giornalista e per un critico: al valore, alla cultura, al contenuto di un prodotto, che si porta dietro le storie, le economie, i messaggi di chi lo ha creato, si aggiunge il valore del cuoco che può manipolare, sconvolgere, trasformare questo ingrediente. In poche parole lo può raccontare meglio di chiunque altro e comunque con parole e sensibilità che sono solo sue. Quale può essere la chiave per raccontarli? Quale può essere, allora, il ruolo di un cuoco all’interno di un sistema? Il cuoco è un’interfaccia, l’anello di una catena, un divulgatore che usa testa e mani. Può determinare crescite, può spostare l’attenzione, può valorizzare o sostenere piccole economie agricole. O, ancora, può essere portavoce di una cultura altra, di una terra o un sapore poco conosciuti. Ma può anche vendere fumo e usare l’immagine di qualcosa che non esiste a proprio vantaggio, a fronte di un consumatore non sempre consapevole. È peggio uno chef che serve una gelatina cattiva o quello che serve un pollo allevato in batteria spacciandolo per ruspante?
E allora dov’è la soluzione? Quale deve essere il ruolo dello chef? Quali sono i parametri per giudicare una buona cucina? Io credo siano l’identità, l’onestà, la coerenza. Si può fare una grande cucina rispettando la tradizione o innovando profondamente, ma quello che si fa deve essere riconoscibile. Così come trasparenza ci può e ci deve essere rispetto per ingredienti e fornitori. La cucina si fa portatrice di messaggi e i messaggi devono essere chiari. Si può fare un grande piatto capace di fondere culture e prodotti diversi (basti pensare alle esperienze di grandi chef australiani come Tetsuya Wakuda o Cheong Liew) o rispettare fedelmente la tradizione portando a tavola un tortello di zucca perfetto. Ma alla base di tutto, del lavoro, dell’impegno (che qualche volta si fa militanza) di un cuoco ci deve essere l’etica. Etica professionale, perché si tratta di un lavoro prezioso. Lo stesso vale per i critici che di questo mondo si fanno portavoce. Nessuno si senta escluso.

12/10/2006

Il verbo del cuoco

Un’altra sezione importante di slowfood 23 è intitolata Il verbo del cuoco.

La presenza di 1000 cuochi a Terra Madre ha suscitato domande e riflessioni. Quale valore hanno oggi le materie prime nel lavoro quotidiano di uno chef? Quale importanza ha il territorio in cui opera e quale ruolo deve svolgere nella sua comunità? Può un grande cuoco diventare un esempio virtuoso per un territorio, in grado di salvare economie agricole di qualità? Su queste e altre questioni abbiamo interpellato alcuni critici gastronomici (Marco Bolasco, Luigi Cremona, Gianfranco Mancini, Paolo Marchi e Paolo Massobrio). Ed essi hanno coniugato cinque verbi:
- RACCONTARE (Marco Bolasco)
- VALORIZZARE (Luigi Cremona)
- RIFLETTERE (Gianfranco Mancini)
- CREARE (Paolo Marchi)
- COMUNICARE (Paolo Massobrio)

Oltre ai pdf degli articoli, che trovate sopra, a breve pubblicheremo su questo blog gli interventi per intero.

I pdf degli articoli

E’ finalmente uscito Slowfood 23.

Qui trovate i link ai pdf degli articoli dedicati ai blog enogastronomici.
- Professionisti allo sbaraglio
- Confessioni e seduzioni
- Chi cerca, trova