Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

3/15/2007

Ready-made food

Firme di critici autorevoli e scatti di Fabrizio Garghetti, fotografo milanese specializzato nel reportage e nell’organizzazione di eventi artistici, dal cui sterminato archivio pescò a suo tempo anche Gianni Sassi, nella realizzazione de La Gola: iniziamo con Slowfood 24 una nuova rubrica, che racconterà di mostre e personaggi, di eat art e sperimentazioni artistiche intorno al mondo del cibo. L’articolo è di Gianluca Ranzi.

«Wenn alle Kunste unterghen, die elde Kochkunst bleibte bestehn»
«Anche quando tutte le arti collassano, la nobile arte della cucina rimane al suo posto»

Daniel Spoerri



Nel 1970, durante una notte insonne a New York, un’idea improvvisa balenò alla mente di Daniel Spoerri: la Venere di Milo, invece che di marmo, avrebbe benissimo potuto essere fatta di sale, e nessuno avrebbe notato la differenza.
Pochi mesi più tardi, partendo da questo sorprendente assunto, riunì alcuni amici artisti intorno al progetto di realizzare opere d’arte, edizioni e perfino intere mostre completamente edibili, consumabili e immancabilmente deperibili. Spoerri, con già alle spalle il lavoro di un decennio sul significato simbolico e rituale del cibo, sulla deperibilità e sulla casualità dell’agire umano e, in ultima analisi, sul tema generale della sopravvivenza della specie, inventava e codificava in quella occasione la sigla del suo operare artistico, il nome della sua personalissima gastrosofia: Eat Art, l’arte da mangiare, l’arte da consumare come su un menù, l’arte che diviene cibo e il cibo che diviene arte, trasformando la galleria, da tempio immacolato dell’arte, a ristorante e bar, proprio come quello che l’artista stesso aprì a Düsseldorf nel giugno del 1968.
Una tale ricerca tanto focalizzata sugli usi sociali del cibo, sulle aspettative e sulle disillusioni di cui esso è da sempre spia non poteva passare inosservata a Slow Food, che ha già dedicato in passato alcuni interventi al genio di uno dei massimi artisti della seconda metà del XX secolo. Oggi una grande mostra antologica al museo Pecci di Prato ripercorre le tappe del percorso creativo dell’artista (“Daniel Spoerri: non solo per caso”, dal 3 febbraio al 29 aprile 2007), offrendo una straordinaria occasione per valutare il fortissimo impatto che il suo lavoro ebbe su tutto il sistema dell’arte contemporanea.

Un ribaltamento paradossale
Quella di Spoerri fu una rivoluzione copernicana che colpì tutti e scandalizzò alcuni, un’operazione che si inseriva del resto in un momento storico-artistico che si dirigeva da più parti verso la desacralizzazione antiretorica dell’arte alla ricerca di un territorio d’azione più ampio e più vicino alla sfera effimera della realtà quotidiana, all’instintualità naturale, al vissuto esistenziale dell’uomo. In questa direzione spingevano, infatti, le performance del gruppo Fluxus, il nuovo umanesimo teorizzato da Joseph Beuys, gli happening di Allan Kaprow, la calata nel quotidiano di Andy Warhol, le teorie del Nouveau Réalisme: tutti ambiti che in qualche modo, per qualche momento, con maggiore o minore intensità, si intrecciarono all’attività artistica di Spoerri.
Fare del cibo e della sua consumazione non soltanto il soggetto ma il vero e proprio oggetto dell’arte, significò lasciarsi alle spalle e superare di colpo tutta la tradizione pittorica legata alle nature morte dalle origini della pittura fino a Picasso, dando spazio a un’inedita formula di operazione creativa e di oggetti d’arte che non sono una semplice copia della realtà, ma sono, secondo lo spirito del Nouveau Réalisme, la realtà stessa.
Riunirsi intorno a una tavola segna ritualisticamente i momenti fondamentali dell’arco vitale delle persone, dai matrimoni ai wakes, dai pranzi d’affari agli eventi di famiglia, ma l’atto quotidiano, “banale” e ripetitivo del sedersi a tavola di ogni giorno, dalla colazione alla cena, ha tuttavia la straordinaria importanza di rendere possibile la funzione primaria del nutrirsi, volta alla sopravvivenza e alla continuazione della specie. Offrire allo spettatore la possibilità di considerare se stesso in relazione a uno degli atti basici dell’esistenza, di quelli che vengono abitualmente esplicati senza farci troppo caso, ha per Spoerri il fine di allargare la cognizione del presente e delle relazioni quotidiane che tutti noi intratteniamo nel nostro ambiente di riferimento, ha il valore di una presa di coscienza sul senso della vita e sull’essenza stessa dell’arte.
Il procedimento attraverso cui Spoerri fa passare questa presa di coscienza è quello di un ribaltamento paradossale, concettuale e fisico. Così come Marcel Duchamp annullando l’aspetto funzionale dei suoi ready-made, faceva diventare un orinatoio di ceramica una fontana o una ruota di bicicletta una scultura “spostandone” il senso e la disposizione nello spazio, anche Spoerri annulla, spiazza e sposta facendo diventare opera d’arte vere tavole su cui si sono appena consumati un pranzo o una cena da lui stesso predisposti. Dopo avere, infatti, incollato meticolosamente tutto ciò che vi è poggiato sopra, stoviglie, posate, bicchieri, portacenere, mozziconi di sigaretta, vasi, fiori, avanzi di cibo, tovaglioli e oggetti vari sono intrappolati sulla tavola nello stesso identico stato o posizione in cui li lasciano i commensali. Spoerri opera così quel passaggio fondamentale che gli permette di slittare dalla cronaca particolare della cena al tempo lungo della storia, dall’effimero, che tanta parte ha nella sua arte e nella nostra vita, alla durata. Lo spiazzamento è completo: egli ribalta la tavola e la appende al muro della galleria, conferendo all’oggetto dignità d’arte. Come ha sostenuto: «Non è forse vero che una galleria d’arte che vende prodotti da drogheria cessa di essere tale e diviene drogheria a tutti gli effetti? E un pomodoro non può forse cessare di essere un ortaggio perché lo dichiariamo essere un’opera d’arte?».
I quadri divengono così quadri-trappola: sono tableaux-piège che catturano, fissano e rendono eterne le minime pieghe d’esistenza e di realtà che si è appena svolta sopra di loro quando ancora, nel mondo degli uomini, svolgevano la funzione di tavole su cui desinare. Spoerri ha dichiarato di essere stato sempre affascinato dal gioco di mutazioni, spostamenti e riassestamenti che avviene su una tavola durante una cena. È un luogo in cui domina la legge della casualità e dove le nostre abitudini e i nostri bisogni prevalgono sul nostro modo razionale di pensare e di organizzare gli oggetti su una normale superficie. Difficilmente nell’arte contemporanea la distanza tra effimero ed eterno si è fatta così sottile come nei suoi quadri trappola: il gesto dell’artista interviene a bloccare per sempre i resti di un pasto su una tavola, ma il suo intervento trascina con sé e preserva come in un amalgama di ambra fossile anche i gesti, i rapporti e le convenzioni di chi vi era seduto. In un mirabolante gioco di rimandi e di rispecchiamenti consecutivi il lavoro di Spoerri ha da sempre giocato sul ruolo attivo, verrebbe da dire creativo, del pubblico, preso e sorpreso dal Witz del suo vortice di trovate.

Bistecche di manzo e menù esotici
Insieme alla sua attività di artista-ristoratore e proprietario della galleria Eat Art, egli è stato infatti anche l’organizzatore di indimenticabili eventi culinari, come la storica “Ultima cena” indetta a Milano nel 1970 per il decimo anniversario della nascita del Nouveau Réalisme o come il banchetto alla rovescia in cui i commensali erano indotti a pensare di cominciare dal dessert e finire con la pastasciutta, per scoprire in realtà che il gelato era fatto di patate schiacciate e gli spaghetti al pomodoro erano fili di purè di castagne “conditi” con coulis di lamponi a cui i solerti camerieri aggiungevano cioccolato bianco grattugiato come fosse parmigiano reggiano.
Gli avventori del suo ristorante, oltre a deliziarsi con le famose bistecche per cui era diventato famoso in tutta Düsseldorf, potevano del resto anche avventurarsi nel famigerato “menù esotico” che comprendeva omelette di formiche grigliate, stufato di pitone, bistecca di proboscide di elefante, feto di gallina e zampa d’orso. Gli avventori potevano scegliere in libertà, Spoerri non li spingeva mai verso tali inappetibili specialità: egli infatti riteneva che uno stimolo puramente intellettuale bastava perché il suo “pubblico” si rendesse conto del proprio costume alimentare e delle convenzioni ad esso legate e come egli stesso ricorda: «Le persone si comportavano come se avessero veramente potuto ordinare quei piatti e un brivido lungo la schiena le percorreva quando finivano per ordinare una semplice bistecca di manzo».

Con le gambe all’aria
La sua riflessione, partendo dagli aspetti vernacolari del vivere quotidiano e del cibo, dalla passione per lo studio antropologico sull’alimentazione umana e sui suoi riflessi sociali, dalla pratica reale della cucina e dalla preparazione di grandi eventi-banchetto, si è svolta così in una considerazione complessiva ben più ampia sulle leggi del caso che governano l’agire umano, sulla precarietà e sulla natura illusoria dell’esistenza e sul delicatissimo gioco di contrappassi e rispecchiamenti che creano inaspettati squarci di senso nel gioco ineluttabile dell’affermazione e dell’annullamento dell’esistenza. Immaginare, intrappolare il caso, metaforizzare il reale, sintetizzare e fondere gli elementi, rappresentare le pulsioni fondamentali dell’essere umano significa trattare in presa diretta con la vita e la morte, mostrando il vincolo inestricabile e paradossale tra Eros e Thanatos: in questo modo le opere di Spoerri continuano a parlare la lingua degli uomini al di là di ogni preclusione e il loro nomadismo le rende contenuto e contenitore per le infinite storie che ancora amiamo raccontarci seduti e ignari intorno a una tavola, prima che il gesto sorprendente dell’artista la mandi per sempre a gambe all’aria.

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