Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

3/23/2007

Gastronomi vecchio stile? No, grazie

Piero Sardo interviene su Slowfood 25, e anticipa alcuni temi del prossimo Slow Fish. L'illustrazione è di PAsquale Todisco (Squaz).

Sabato 23 dicembre, al tramonto, una barca di pescatori è salpata dal porto di Comacchio verso il largo, fuori delle Valli. Sulla barca il presidente del Parco del Delta del Po, Valter Zago, il sottosegretario del Ministero dell’Agricoltura Guido Tampieri, il presidente di Slow Food Emilia, Alberto Fabbri, il professor Stefano Cataudella, membro del comitato scientifico di Slow Fish, e altre personalità scientifiche e istituzionali. Il gruppo non andava a celebrare in mare la vigilia di Natale, ma a compiere un gesto fortemente simbolico: liberare in acque aperte 200 chili di anguille o, meglio, di capitoni, gli animali più maturi, pronti per il ritorno nel mar dei Sargassi per riprodursi. Catturati nei lavorieri dell’azienda Valli, ora gestita dal Parco e diventata Presidio Slow Food, invece di finire arrostiti alle braci e marinati, si sono trovati in mare aperto.
Questo perché, come forse ben sapete, la situazione degli stock di anguille è drammatica. Si assiste ormai da anni a un calo costante e sensibile nei quantitativi di avanotti che arrivano alle acque dolci dal mare e, conseguentemente, della loro pesca: e questo succede in ogni parte del mondo. La causa di questa situazione è da addebitare in buona parte alla presenza nei mari orientali di un parassita che attacca le anguille e le uccide, un parassita che è ancora assente in Europa. Qui da noi opera, però, un morbo peggiore, l’uomo. L’uomo cui è ancora consentito pescare le ceche (gli avanotti dell’anguilla) come in Francia e in Spagna; l’uomo che esercita una pressione di pesca eccessiva, praticando anche il bracconaggio, cioè la pesca al di fuori dei periodi consentiti; l’uomo che utilizza strumenti di cattura che non concedono possibilità di scampo agli animali che risalgono i fiumi o le lagune.
Così, stando ai dati elaborati dalla Commissione europea, siamo arrivati all’1% del “reclutamento” – questa terminologia ufficiale è commovente per quanto vuol essere neutra e poco allarmistica: reclutamento vuol dire le quantità catturate, uccise e commercializzate o mangiate! – di animali rispetto alle quantità storiche. Ora la Commissione ha deciso di intervenire con vari provvedimenti, tra i quali il ripopolamento. Ma è chiaro che tra il dire e il fare ce ne corre, soprattutto in questo caso, laddove i capitoni hanno sul mercato un valore assai rilevante.

La nostra campagna
Ebbene, 200 chili sono tornati liberi e si spera che altri – il doppio (?), il triplo (?) – rientrino nelle Valli nei prossimi anni. Sempre che i cecchini franco-spagnoli lascino transitare qualche banco di avanotti. Tutto questo si ricollega al manifesto della campagna “Mangiamoli giusti”, un manifesto che lancia un allarme e che ci richiama a gesti simbolici: non abbiamo l’autorità per imporre un divieto legale al consumo di pesci sotto taglia, anche se sono certo che tra non molto tempo si arriverà a questa interdizione assoluta, di pesca e di consumo, per legge. Ma abbiamo il dovere di sensibilizzare tanto chi è socio di Slow Food quanto chi ci segue e crede nei progetti che portiamo avanti. Possiamo compiere gesti simbolici importanti, dobbiamo farlo. Mi pare già di sentire le sbuffate di Stefano Bonilli – e dei molti che la pensano come lui – che sul suo blog ironizza infastidito sui mille altolà che arrivano da più parti: «basta tonno rosso!», «stop ai bianchetti!», «il foie gras non è eticamente corretto!», «il caviale finanzia la mafia!», e così via. Bonilli sostiene che di questo passo si riducono gli spazi di libertà e crolla il piacere gastronomico. Che comportamenti simili, semmai, devono essere frutto di scelte individuali e sensibilità specifiche, non di divieti o intimidazioni. Sono argomentazioni di un gastronomo vecchio stile che, come andiamo ripetendo da anni, per natura – direi per definizione – è egoista.
Noi non siamo più gastronomi tout court, o mi sbaglio? Allora dobbiamo sottoscrivere il manifesto, farlo conoscere e cominciare a compiere gesti simbolici: al piatto di bianchetti appena sbollentati conditi con un filo di olio nuovo, che il ristoratore vigliaccamente ci porta al tavolo senza preavviso, dire: «No, grazie». Magari asciugandoci le lacrime e deglutendo saliva. «No, grazie». Ne saremo capaci?

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