Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

5/04/2007

Campioni del mondo, cap. 3

Intervista a Joe Bastianich di Tiziano Gaia e Giancarlo Gariglio, pubblicata su Slowfood 26.

Il suo nome è Bastianich. Joe Bastianich. E da qualche anno più che un semplice nome è un brand, di quelli che incidono sulle scelte dei consumatori e possono condizionare il mercato, un certo mercato: nel caso nostro, quello del vino italiano e della gastronomia di qualità negli Usa. Su Google si leggono al suo riguardo biografie dai toni epici, di quelle che solitamente raccontano la vita dei decani, delle vecchie glorie. Peccato che Bastianich sia di un’annata giovane perfino per certi vini, il ’68, dunque neppure quarantenne, e che a vederlo ti dia l’aria easy del ragazzo americano capitato un po’ per caso lì dove lo incontriamo: ristorante Babbo, Waverly Place, Greenwich Village, Nyc. Il “ragazzo”, in realtà, di Babbo è l’ispiratore e il patron; di Babbo, e di altri 15 locali di grido aperti su svariati fusi orari americani. La storia del “nostro” (al secolo Joseph V. Bastianich, come nella migliore tradizione a stelle e strisce) inizia nella Grande Mela, ma affonda le radici da questa parte dell’oceano, in Istria, terra d’origine dei genitori, Lidia e Felice. Sono mamma e papà, negli anni Cinquanta, a sbarcare negli Usa, dando inizio a quella che diventerà nel giro di un trentennio una delle più acclamate dinasty gastronomiche degli States, artefice di una scalata ai vertici dell’eccellenza e del successo che ha pochi eguali anche in altri segmenti dell’economia statunitense. Nel 1971 i coniugi Bastianich aprono il loro primo ristorante nel Queens, il Buonavia. Il salto a Manhattan arriva 10 anni più tardi: è il 1981 quando in zona East River («il punto di Manhattan più vicino al Queens» come amano rimarcare) apre Felidia. È il momento della svolta: il locale si afferma subito come uno dei punti di ritrovo più apprezzati dai gourmet newyorkesi, il concetto di “fedele rivisitazione” della cucina italiana, accompagnata a una scelta di vini italici ben calibrata sul palato e sulle conoscenze degli habitués, ne decreta il trionfo.

Mr. Bastianich, Felidia ha dato inizio a un vero e proprio “fenomeno”. Qualcuno attribuisce a questo storico indirizzo addirittura un mutamento della percezione dei newyorkesi nei confronti della nostra cucina e dell nostro vino. Lei che ne pensa? E come ha vissuto quegli anni ruggenti?
Nei primi anni Ottanta si assiste in effetti a un mutamento della considerazione che gli americani hanno del vino italiano. Prima – parlo degli anni Cinquanta-Sessanta – c’era solo il Chianti venduto a fiaschetti nelle trattorie di Little Italy, poi – siamo negli anni Settanta – arrivano negli Usa i primi grandi nomi piemontesi, toscani, veneti: il pubblico comincia a familiarizzare con i grandi barolisti, i Conterno e Bartolo Mascarello, si emoziona per Giacosa e per i Barbaresco di Gaja, scopre il Brunello di Biondi Santi e per la prima volta assaggia un Amarone di Dal Forno. Negli anni in cui apre Felidia, la situazione muta ancora: la curiosità dei clienti spinge locali come il nostro a ricercare nuove etichette da promuovere sul mercato di New York, molto spesso un trampolino di lancio per gli altri Stati della costa o per quelli dell’interno. Il vino cambia pelle. La gente si affeziona alle etichette e vuole bere sempre meglio.

Eppure, gli anni d’oro devono ancora arrivare…
Vero. La fortuna del vino italiano negli Usa, in fondo, è recentissima: bisogna giungere agli anni Novanta perché non si possa più parlare di singoli produttori o singole tipologie, bensì di “sistema Italia”. Ma vorrei fare un passo indietro, tornare a quegli anni…

Prego. Anche perché siamo curiosi di sapere che cosa accadde subito dopo Felidia.
Felidia fu una sorta di sorpresa anche per noi. Io al tempo ero giovanissimo, non avevo idee chiare sul mio futuro e non ero certo che questo sarebbe diventato il mio mondo. Ma amavo l’Italia, un amore che mi era stato trasmesso dai mei genitori (Joe è il primo Bastianich nato in terra statunitense, nda) e che mi spingeva a trascorrere lunghi periodi nel vostro… nel nostro paese. Erano tour che includevano sempre la visita a cantine, osterie, punti di accoglienza e ristoro nelle regioni più disparate. Incontrando i produttori, ne incontravo le difficoltà a uscire da un mondo ancora molto provinciale, l’ansia di far conoscere un prodotto in molti casi eccezionale, la volontà di darsi gli strumenti per valorizzare al meglio il loro lavoro. Tornato a New York dopo il mio viaggio italiano più lungo…

… e mandata al macero una promettente carriera di broker alla Borsa di Wall Street…
Questo lo dicono le biografie, che per definizione mentono! Dunque, dicevo, tornato da questo viaggio mi misi a organizzare la cantina di Felidia alla luce delle conoscenze che avevo acquisito, ma non solo: decisi di fare il grande passo e aprire il mio primo ristorante.

Becco. Il celebre “pre fix”. Una rivoluzione.
Qui avete letto bene! Scherzi a parte… sì, quello fu uno shock per New York. Il concetto era semplice: io volevo che le gente bevesse, che i giovani americani si innamorassero del vino come io ero ne ero innamorato – avevo 23 anni, siamo nel 1991 – e perché questo accadesse potevo puntare soltanto su un prezzo che fosse il più possibile abbordabile. Avevamo 130 etichette. Molte di cantine italiane sconosciute all’epoca. Nessuna costava più di 15 dollari (poi siamo saliti fino a 20). Questo cambiò ancora una volta le carte in tavola sul modo di vedere il vino italiano in questa fetta di America.

Non dirà che è tutto merito suo…!
Certo che no! Infatti, come ho già detto, gli anni Novanta rappresentano di per sé una svolta epocale nel vino italiano. Anche le firme di media o piccola grandezza (sembra una contraddizione in termini, in effetti lo è) arrivano negli Usa coi loro prodotti, hanno i rappresentanti, propongono e vendono le loro bottiglie… Noi, al tempo, forse siamo stati bravi a intercettare da un lato la grande offerta che stava giungendo sul nostro mercato, dall’altro a orientare la domanda verso questo tipo di offerta. Tutto qui.

Be’, adesso non esageriamo. Siamo soltanto al primo ristorante. Ne mancano… una quindicina?
Sì, ma non è tanto il numero che interessa, e poi non stiamo parlando di me, ma del vino italiano negli Usa. Allora dico un’altra data cruciale: 1998. L’anno in cui apre Babbo. Il concetto si ribalta rispetto a Becco: qui vendiamo centinaia e centinaia di etichette italiane, alcune anche a prezzo molto elevato, abbinate a una cucina di altissimo livello, se così si può dire.

Si può, e se non lo fa lei lo facciamo noi: Babbo è stella Michelin, è una macchina da guerra che macina numeri impressionanti ed è la prima esperienza di partnership con il celebre chef Mario Batali. Crediamo possa bastare…
Può bastare!

Non ancora: le riviste americane, New York Times compreso, definiscono lei e Batali «coppia blockbuster»!
Ma questa è l’America! Oggi ci definiscono così, domani… Comunque il punto è: i clienti oggi sono curiosi, il vino italiano negli Usa tira moltissimo perchè rientra in quell’Italian style che affascina il consumatore.

Lei che cosa consiglia a una griffe affermata per non perdere posizioni, e che cosa a un piccolo vigneron emergente per farsi conoscere?
Alla prima dico di continuare a proporsi, di non stancarsi mai di battere il mercato americano in lungo e in largo, di non dare nulla per scontato, mai. Al secondo… le stesse identiche cose! Per me il succo della questione è tutto qui.

Ma ci tolga una curiosità: sono i buyers a cercare i produttori o viceversa?
Bella questione! Direi che entrambi si cercano, talora senza incontrarsi. Noi ogni anno acquistiamo 15 milioni di dollari di vino italiano per i nostri vari locali. Chi ci conosce, ci cerca e si propone. A noi fa piacere, spesso si tratta anche di belle realtà che poi al giudizio finale del cliente funzionano. Ma guai se noi smettessimo di cercare per conto nostro: io ho agenti che passano il loro tempo in Italia a scovare nuove aziende e a conoscere i vini. Direi che è quasi una questione di sopravvivenza.

Cambia, sta cambiando, è già cambiato il gusto negli Usa? Voi come vi ponete? Assecondate il cambiamento, o lo precedete?
Anche questo è un punto complesso: i gusti cambiano, certo, ma non poi così tanto. Vedete, il pubblico americano non è poi così schizofrenico: adora la cucina italiana – mi piace sempre partire da questo concetto – che qui negli Usa è piuttosto refrattaria a grossi sommovimenti concettuali, e di conseguenza continua ad amare in modo viscerale il vino che quella tradizione sa esprimere. Certo, oggi potranno andare un po’ meglio i vini eleganti, ieri quelli barricati, domani chissà, ma non è questo l’aspetto centrale: l’aspetto centrale è la straordinaria, e unica, diversità che l’enologia italiana sa trasmettere. Io li vedo, gli occhi dei nostri clienti nell’atto di scegliere un vino dalla carta: possono passare dai bianchi valdostani ai rossi siciliani, nella stessa sera, nello stesso locale, durante la stessa cena. Questo li entusiasma.

Per la cronaca, dopo l’incontro da Babbo il nostro tour è proseguito in altri tasselli della galassia Bastianich: Otto Enoteca Pizzeria, Casa Mono – deliziosa divagazione gastronomica in stile Spanish – fino a Del Posto, l’ultima invenzione della coppia blockbuster, fresca della doppia stella Michelin. In mezzo ci sarebbe molto altro: compresa un’enoteca a Downtown – Italian Wine Merchants –, un “gastropub” che introduce il concetto di qualità anche in una tipologia normalmente reietta su questo fronte, due best seller scritti insieme all’amico e general manager di Babbo, David Lynch – Vino Italiano e Vino Italiano Buying Guide –, una presenza fissa sulla Nbc e due cantine di proprietà in Friuli e Toscana.

Mania di grandezza, Mr. Bastianich?

Se di grandezza vogliamo parlare, è quella del vino italiano, semmai! Noi siamo soltanto compagni di strada del suo successo.

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