Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

9/11/2007

Il banchetto del linguaggio

Sono nato nel cuore dell’Inghilterra, la contea del Warwickshire, in un paese di 1500 anime quietamente adagiato tra campi ordinati, praterie e boschi.
Quei campi iniziavano proprio in fondo alla strada, a pochi passi dalla mia casa. Un confine senza demarcazione, che non è confine.
Adesso devo camminare per miglia e miglia prima di lasciarmi alle spalle un crogiolo ribollente di umanità, per non vedere più le lunghe mura diroccate che racchiudono 130 chiese, innumerevoli edifici e centinaia di viali e strade. Un enorme palcoscenico sul quale si agitano almeno 200 000 persone! Recinti per il combattimento dei galli e arene per la lotta, patiboli e palchi improvvisati, campi di bocce e bordelli, tanti quante le locande.
Proprio la terra di nessuno dei sobborghi è, assieme al centro, quella più fertile di visi, storie, incontri.
Schiere di nullatenenti, artisti di strada e manigoldi occupano le vie affollate e maleodoranti. I londinesi sono soliti attraversarle tenendo sotto il naso piccoli mazzi di fiori e chiodi di garofano. Ma non è l’odore la principale preoccupazione, è la peste. È lei l’incubo, il flagello che incombe, il demone che si cerca di tenere lontano dalle case bruciando candele profumate ed erbe.
Camminando per l’agglomerato mi imbatto nella moltitudine di diseredati che vive di carità, vagabondi giunti nella capitale in cerca di un minimo sostentamento. Presso la chiesa di San Dustans East ogni domenica c’è una distribuzione di carne e pane; lo stesso avviene a San Zaccaria, che ha tra i suoi benefattori un cuoco famoso, Stefano Robert. Molti sono i filantropi che istituiscono rendite, come il negoziante di stoffe William Gilborn che garantisce ai poveri ben 12 pani domenicali. Tra i tanti luoghi di raduno spicca la cattedrale di St. Paul, che sorge nei quartieri poveri e sul cui spiazzo si raduna un’intera corte dei miracoli: giocolieri, clown, mendicanti. I dintorni sono “la capitale dei ladri” e sui suoi gradini si dà convegno tutto quello che “fa gran rumore in città”.
A Westminster si recano, invece, a dorso di mulo e in uniforme, gli opulenti giudici: uomini dal ventre rotondo, foderati di grassi capponi, con la barba magistralmente tagliata, colmi di sagge massime e di procedimenti tortuosi ma che proclamano infallibili. Avvocato, infatti, è la parola usata dai cortigiani per fagiano; dato che quando i contadini devono presentarsi a corte per consultare i legali e ottenere giustizia sono soliti portare in dono fagiani, polli o cacciagione. Forse è per questo che present, “regalo”, e pheasant, “fagiano”, sono così simili.
Ah le parole, che meravigliosi giocattoli! E quante ne sento intrecciarsi e rincorrersi per le vie. Ogni personaggio ha un tono e un dire inconfondibili. Una moltitudine di visi, voci, gesti, smorfie.



La mitria, la Sirena e il club del venerdì
Ma c’è un luogo, tra tutti, nel quale si concentra quella brulicante galleria di caratteri, di attori inconsapevoli: la taverna.
La taverna è il cuore pulsante della vita londinese, un palco sul quale scorre la vita reale con tutti i suoi tipi, microcosmo nel quale si appartano, si riuniscono, discutono, litigano, duellano, scrivono e amano anche i poeti e i drammaturghi. Nei gesti e nel vestire sono indistinguibili dagli altri avventori.
Tra le mura cittadine i locali sono centinaia. Casupole in legno dal tetto appuntito e il piano inferiore che si protende sulla strada con lunghi travi, l’insegna dondolante e una gotica, fagocitante oscurità. L’orso bianco, La taverna rossa, Il vascello e la stella, Il leone rampante, L’orso incatenato, questi sono i loro nomi. Celebre per i suoi vini è Il cigno, in Chering Cross.
Cheapside è una distesa di osterie le cui insegne rivaleggiano scontrandosi le une con le altre, tanto si susseguono dappresso lungo le vie. Dalle loro porte sono passati i più grandi autori del secolo e tra le loro mura si sono fronteggiate le due scuole letterarie più in voga del momento, il classicismo e l’eufuismo. La prima difende i canoni tradizionali, aristotelici, della poetica, la seconda si apre al gioco d’ingegno, all’artifizio retorico, a una brillante e gradevole leggerezza dell’intreccio. I loro araldi si chiamano Sidney e Lily, Nasch, Greene, Middleton, Jonson… Tutti concordi, comunque, nell’apprezzare vini, birra e liquori, come il sack, vino bianco importato dalle Canarie, il corposo rosso di Madeira, lo cherry, il bitter, amaro liquore d’erbe, e il metheglin, antica bevanda medicale composta di acqua e miele fermentato, pronipote della divina ambrosia.
La mitria, aperta nel 1475, è il ritrovo dei classicisti mentre La sirena di Bread Street è rifugio degli eufuisti. Le dispute passano così dal piano letterario, dalla difesa di Plauto, Euripide e Ariosto, al vanto culinario delle rispettive cucine, dalla lettura degli autori della decadenza latina all’elogio della cantina meglio fornita. Se un personaggio di Middleton afferma: «Per me non esiste che La mitria. Servizio inappuntabile, diligentissimi camerieri… vini superlativi. È una taverna con la quale La sirena non ha niente a che vedere…», Jonson risponde prontamente con un’epistola che rivendica la superiorità di quest’ultima. D’altronde, come egli stesso afferma: «Si rovina a mezzo la vita colui che, avendo commercio con le muse, non beve vino».
Quanto a me, prediligo La sirena e il suo stile ma, in realtà, sono una sorta di ponte, di mediatore. Mi piace sedere appartato e osservare, accostare le due scuole, i loro interpreti. Faccio parte del Friday club, un’organizzazione di scrittori, poeti e attori fondata nel 1603 da Sir Walter Raleigh, che si riunisce il primo venerdì di ogni mese. Tra gli affiliati ci sono John Donne, Francis Beaumont, John Fletcher e, ovviamente, l’immancabile Ben Jonson col quale, talvolta, discuto per ore. In quei duelli verbali mi sento come una guizzante nave da guerra inglese e immagino maestro Jonson massiccio e possente come un galeone, ma lento nelle manovre, mentre io posso accostare e virare con ogni mare e trarre vantaggio da ogni vento.
Seduto nella luce incerta delle lanterne a olio, però, tra il gioco dei dadi e delle carte, sotto i piccoli riquadri delle finestre che lasciano sfuggire in strada zaffate di vino e nuvole di fumo, risa, grida e bestemmie, medito sulla natura umana. Sul demone del vino che accomuna il manovale e il gentiluomo, lo scrittore e la cortigiana.



Tavole per ogni stomaco
Ci sono tavole per ogni stomaco, pasti abbondanti e piatti abbastanza vari: bistecche, braciola di maiale, carne di montone e di vitello, coniglio, uova al burro, ostriche, anguilla marinata, pesci di lago, pasticci di interiora – il quinto quarto dell’animale destinato ai poveri – dolci di frutta secca e spezie e manchet, un pane di grano d’ottima qualità, appena sfornato.
Specialità di una delle taverne più amate da Jonson, L’antilope, è la patata, di fresca importazione dal Nuovo Mondo e molto alla moda. Così la elogia l’autore di un erbario: «Ho messo nel mio giardino diverse piante di questo tubero, comperate alla Borsa di Londra, e ne ho mangiati i frutti arrostiti sotto le ceneri. So che vi sono di quelli che le mangiano nel vino e altri che le preferiscono arrostite con le prugne; in qualunque maniera esse siano preparate, sono nutrienti, confortanti». D’altronde, i clienti dell’Antilope sono persone abbienti, uomini di corte e della buona società cui la moda impone di disdegnare quarti di daino e fagiani in salsa in onore di un bel pasticcio di “esotiche” patate. Il che si confà a una singolare disposizione della defunta sovrana, Elisabetta I, la quale predispone per i sudditi della corona ben tre giorni di magro durante la settimana – lunedì, mercoledì e venerdì –; in realtà, se non soprattutto, con l’intento di incrementare la prosperità dell’industria ittica inglese.
Però dicono che la stessa regina non fosse troppo severa con chi eccede in vino e libagioni. Alla sua corte si svolgevano feste nelle quali, col pretesto della mitologia, si dava luogo a veri e propri baccanali. E il suo successore, Giacomo I, non è da meno. Come racconta il segretario di stato Barrow: «Durante la visita del re di Danimarca Cristiano II non ho fatto altro che banchettare e godermela. Ogni sorta di piacere mi ha occupato a tal punto che mi sembrava di essere arrivato nel paradiso di Maometto. Abbiamo avuto vino e delizie di ogni genere in così meravigliosa abbondanza che ogni spettatore sobrio deve essere rimasto di stucco. Le ladies stesse, hanno abbandonato ogni sobrietà e rotolano sotto gli occhi di tutti in uno stato di completa ubriachezza». Pare che in quei giorni, durante una rappresentazione teatrale, una dama che impersonava la regina di Saba cadde, del tutto ubriaca, sulle ginocchia del re danese il quale cercò di sollevarla e danzare con lei, ma piombò anch’egli ubriaco ai suoi piedi. La donna fu trasportata sul letto reale e non vi dico quali presenti la sua bocca rovesciò sulle auguste coperte: vini, creme, confetti, gelati, ma soprattutto vini.

Il cibo della parola
La vita è teatro e il teatro non è altro che la vita osservata con attenzione ed esibita ai suoi protagonisti. Quelli stessi che per dire «bere forte» dicono «tingere scarlatto il volto» e sentono ripetere, per l’intera vita, frasi come «tutto d’un fiato», «otto scellini e sei», «una pinta di moscato alla numero quattro».
Se nobili e popolani sono accomunati dal bisogno di spendere la moneta universale del vizio, cosa differenzia gli uomini? Quel che di sé rivelano nell’attimo dell’abbandono, mostrando ciò che si cela dietro le quinte dell’esistenza.
L’ambiguo dono di Dioniso, grazie alla sua capacità di elargire ebbrezza liberatoria, svela la duplicità dell’animo: da un lato, rende lo spirito perspicace, vivo, inventivo, pieno di forme agili, ardenti e dilettevoli; dall’altro trasforma l’uomo in una maschera grottesca che indugia nei peggiori istinti.
L’equilibrio è solo un momento nell’oscillazione del pendolo delle passioni. L’amore, la gelosia, la vendetta, la brama di potere, ecco i grandi protagonisti delle vicende umane, il loro motore, il condimento, il sale delle pietanze della vita.
Il vero cibo del drammaturgo è, invece, la parola. Tra metafore e allegorie, nell’infinito gioco del narrare si dipana la sua infinita potenza: «Words are a very fantastical banquet»!
Dimenticavo. Di me sentirete dire molte cose, alcune autentiche, altre – davvero degne d’un mio personaggio – troppo belle per esserlo. Addirittura che non sono io, ma le mentite spoglie d’un altro autore, Christopher Marlowe, amante di donne e duelli, agente segreto e gran frequentatore di osterie che, secondo una fertile fantasia, inscenò la propria morte – in una locanda appunto – per vivere appartato di sola scrittura. Diranno che sono un nobile e ho assunto l’identità del figlio d’un pellaio di campagna per poter descrivere e pungere con la mia penna la vita e i costumi di corte. Oppure, che sono davvero il figlio d’un guantaio, fuggito dal proprio paese per aver cacciato di frodo. Cercando fortuna a Londra ho frequentato bettole e bassifondi, leggendo nel loro specchio oscuro la natura umana. Ho così, infine, fatto il capocomico e l’impresario e ho nutrito di quelle figure commedie, drammi e tragedie, firmandole con l’unico nome che mi è toccato in sorte: William Shakespeare.

*Il testo è un libero riadattamento dell’autore, Roberto Carretta, ispirato al tema del libro In taverna con Shakespeare. Amori, vendette e inganni a banchetto, Il leone verde Edizioni, Torino, 2005.
E' stato pubblicato su Slowfood 28, le Illustrazioni sono di Daniela Villa.

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