Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

3/03/2008

Dolce più dolce

A pranzo con Nada, alla Cantina di Scansano
di Alberto Campo, le foto sono di Alex Astegiano

Da quando, ragazzina con minigonna e stivali, seduceva il pubblico televisivo dall’Ariston di Sanremo cantando “Ma che freddo fa” è trascorsa quasi una vita. E la sua stessa vita, artistica e non, è molto cambiata da allora. Eppure alcune cose sono rimaste tali e quali: il volto ancora vagamente infantile e lo sguardo impertinente. Lo si nota osservandola mettersi in posa – col sigaro toscano in bocca! – all’esterno della Cantina, enoteca con annesso ristorante situata nel borgo antico di Scansano, dove ci siamo dati appuntamento. Da qualche anno Nada abita qui vicino, sulle colline tra Manciano e Capalbio, in piena Maremma. Un buen retiro in cui cova canzoni e storie (sta ultimando a proposito il suo secondo libro, dopo avere debuttato da scrittrice nel 2003 con Le mie madri).
Il locale ubicato al promettente indirizzo di Via della Botte ha il fascino austero delle architetture tardo-rinascimentali. Ci spiegano che in origine faceva corpo unico con gli edifici adiacenti, frazioni di un unico palazzo patrizio risalente al XVII secolo. Nomen omen, questa ne era davvero la cantina, sormontata da un granaio, con accanto le antiche sedi della banca municipale e dell’ufficio postale. Entrando, oltre a una parata di bottiglie da capogiro, fanno mostra di sé prodotti tipici della zona, alimentari e non. Passato l’atrio e attraversato un corridoio, si sbuca nell’ampia sala da pranzo: mattoni a vista, arcate, tavoli e sedie in legno di castagno, come se i secoli non fossero trascorsi. Una sensazione di sobria eleganza avvolge le cose.
Seduti a tavola, sgranocchiamo grissini, schiacciata e pane della casa. Il fai-da-te è regola in questo posto, dove in cucina si lavorano verdure cresciute in orto biologico, come la zucca e i pomodori contenuti nelle mousse che aprono il pasto. E, trovandoci a Scansano, non possiamo non bere il Morellino, gloria dei vinificatori locali. «Era un vino povero, da mescita, che però col tempo hanno imparato a lavorare bene» spiega Nada. Nell’occasione, apprezziamo il Primo prodotto dall’azienda agricola Bargagli, seguito da un Massi di Mandorlaia che arriva dalla tenuta Guicciardini a Montespertoli, in provincia di Firenze. E girano le prime portate: tortelli di castagne, zuppa di fagioli e cavolo nero, lasagnetta al sugo di coniglio. Nada apprezza e racconta…

Che rapporto hai col cibo?
Adesso buono, a differenza del passato. Da bambina ero di una magrezza spaventosa e il cibo per me era sofferenza, mangiavo veramente poco, nemmeno i dolci. Mi piacevano solo le castagne. Ero la disperazione della famiglia: mamma cucinava cose apposta per me, ma non c’era verso di convincermi. Anzi, diventavo prepotente: sapevo che lo scopo di mamma e di mia sorella maggiore era farmi mangiare e io ricambiavo con i capricci, volevo un piatto diverso per ciascuna portata, perfino la lattuga in uno e il pomodoro in un altro. Strano ripensarci adesso, che sono diventata addirittura golosa…

Parlaci della tua famiglia…
Sono nata a Gabbro, un paesino nei dintorni di Livorno. Eravamo un famiglia povera e abitavamo in una casa di campagna: mio padre era contadino, faceva il grano e il vino, vendeva i prodotti della terra e noi vivevamo di quello.

Poi la fama precoce: come andarono le cose?
Non è che volessi fare la cantante, mi ci sono ritrovata: avevo questa voce fin dai tempi della scuola e tutti dicevano che ero brava. Fu mamma a spingere affinché facessi dei provini: un tizio li ascoltò e mi portò subito a Roma a firmare un contratto. E così, poco dopo, eccomi a Sanremo, nel mezzo di un delirio di gente, successo, quattrini e cose da fare: una situazione molto più grande di me. Detestavo la finzione che c’era intorno, l’interesse morboso nei miei confronti. E dopo il festival, i concerti nei locali: cantavo, correvo dietro le quinte a vomitare e ricominciavo a cantare. Probabilmente ero anoressica, ma allora non se ne sapeva nulla. Dicevano che ero esaurita.

Quando è arrivato il cambiamento?
Intorno ai 30 anni, dopo aver smesso di fumare sigarette, che – si sa – fa aumentare l’appetito. Poi c’era mia figlia Carlotta che stava diventando grande: fin lì l’aveva cresciuta mia madre, visto che io continuavo a lavorare per mantenere la famiglia. E lei stava sviluppando un rapporto col cibo migliore del mio, tanto che poi da adolescente si è messa a cucinare con piacere. Fatto sta che mi sono sciolta e ho cominciato finalmente a mangiare gustando il cibo. Credo sia andato di pari passo con una maggiore consapevolezza di me stessa: prima ero troppo spaventata e angosciata dalla vita che facevo.

E cominciasti anche a cucinare?
Sì, anche se non molto, visto che il tempo a disposizione era poco, e per cucinare ne serve parecchio, soprattutto se uno è – come me – perfezionista. Preferisco comunque mangiare più che stare ai fornelli. Non sono male come cuoca: le poche cose che faccio, soprattutto zuppe e minestre, le faccio bene. Preferisco i piatti semplici a quelli troppo elaborati. Tipo questa zuppa…

Zuppa che, ci viene spiegato, è una sorta di ribollita con dentro quattro qualità diverse di fagioli che, però, non viene passata in forno dopo la cottura sulla fiamma. Una vera squisitezza. Squilla in lontananza la suoneria di un portatile nell’indifferenza generale. Scopriremo dopo che si tratta di quello di Nada. Siamo troppo presi dalla conversazione, dal cibo e dal vino.

Quando ti sei trasferita in Maremma? E perché?
È successo nel 2003, dopo aver vissuto per più di 30 anni a Roma, una città che adoro e sento ancora mia, ma è proprio l’idea di città che non sopporto più, con tutta la frenesia e la confusione relative che finiscono per travolgerti. Abbiamo scelto la Maremma perché è più vicina di Livorno a Roma, dove tuttora vive mia figlia. E il posto è davvero speciale: abbiamo costruito dal nulla una specie di convento avveniristico su una collina isolata, con nessuno intorno per una ventina di chilometri, in una zona sotto tutela del Wwf. Abbiamo l’orto, quattro ettari di olivi e due di bosco, di cui abbiamo affidato la cura a gente del posto: mi sarebbe piaciuto occuparmene, ma tra la musica e i libri non è che abbia poi tutto questo tempo libero.

Il trasferimento avrà migliorato la qualità della vita, no?
Non è che sia successo di colpo, già prima ero attenta alle cose naturali e di qualità, ma è ovvio che adesso la vita sia cambiata tantissimo: qui c’è un’altra dimensione del tempo e per questo dai alle cose un valore diverso, più equilibrato. È bellissimo dormirci, e io sono una che dorme almeno 12 ore per notte: ne ho più bisogno che di mangiare. Ed è piacevole usare in cucina le cose che produci nell’orto o quelle che ti portano i vicini, tipo le uova: così uno si riabitua a consumare solo i prodotti di stagione, a costo di mangiare zucchine per due mesi di fila.

È come se si chiudesse il cerchio con la tua infanzia…
Sì, magari anche in modo inconsapevole, ho ritrovato quello che avevo da piccina.

Dicevi di tuo padre che faceva il vino, a proposito…
Sì, ne produceva uno “contadino”, rustico ma buono, e a me piaceva. Ho preso sbronze già da bambina, durante la vendemmia: portavo i tegami con la spremitura alla damigiana e me ne bevevo un po’ a ogni giro. Una volta me ne sono proprio andata… E adesso lo bevo sempre quando mangio, a pranzo e a cena: compriamo del buon Morellino sfuso in una cantina proprio qui a Scansano. Ma mi piacciono pure i superalcolici: grappe e whisky. Bevo in compagnia ma anche da sola: capita che mi metta in veranda col bicchiere pieno e il sigaro a guardare il tramonto… Non che sia un’intenditrice, ma riconosco i vini e gli alcolici buoni: col tempo mi sono fatta una certa esperienza.

Parlando d’esperienza, te ne sarai fatta una sulle cucine regionali, girando l’Italia in tutti questi anni. Zone preferite?
Su tutte l’Emilia, per la cura e la passione con cui tengono viva la cucina tradizionale: vado matta per la loro pasta ripiena, a cominciare dai tortellini in brodo. E poi il Piemonte, per il tartufo bianco, l’unica “puzza” che mi piace, tanto che quando capita che me lo regalino lo metto pure in bagno e in camera da letto, e per il Dolcetto, soprattutto dopo aver scoperto un produttore chiamato Nada! Apprezzo anche una certa cucina meridionale, perché usano molte verdure: non che sia vegetariana, ma carne ne mangio meno che posso, mentre adoro il pesce, anche se ultimamente quello che trovi è quasi sempre d’allevamento, perfino il rombo e l’orata.

Benché sia restia a mangiar carne, assaggia ugualmente un filetto di maiale saltato in padella col finocchietto selvatico. Ma già è concentrata sui dolci, la sua vera passione. Tra quelli in carta, sceglie e gusta una torta di pere e cioccolato.

Dicci di questo debole per i dolci, già che ci siamo…
Ha preso quota in maniera esagerata: quando vado al ristorante per prima cosa chiedo sempre cosa c’è di dolce, in modo da regolarmi per tenergli spazio. Vado matta per il mont blanc: sarà banale ma lo trovo irresistibile, e poi insieme alla panna ci sono le castagne. Fanno eccezione la cassata siciliana e la pastiera napoletana, gli unici dolci che non mangio.

Ci sono colleghi con cui ami stare a tavola?
Non me ne vengono in mente molti: di solito i musicisti non badano troppo al cibo, mangiano perché devono. E io ci faccio sempre la figura di quella fissata. Direi però Rita Marcotulli, la pianista jazz, con cui è piacevole bere vino, o Cristina Donà, che come me è attenta alla qualità del cibo. E ricordo di quando ero giovane, a metà anni Settanta, Paolo Conte: stava scrivendo insieme a Piero Ciampi le canzoni per un mio disco e mi portava nei ristoranti dell’Astigiano, solo che era il periodo in cui detestavo il cibo, così mi limitavo ad apprezzare l’atmosfera dei posti e a bere.

Adesso, invece, che cosa ti piace nell’andare a mangiare fuori?
Il fascino della convivialità, perché scegli il posto e che cosa mangiare, ma soprattutto la compagnia con cui farlo, generalmente amici. Dev’essere un momento di assoluto relax, insomma.

Ci sono posti dove vai abitualmente?
Qui in Maremma è pieno: il ristorante dell’hotel Vulci, sull’Aurelia, specializzato in pesce, dove mi sento come fossi a casa, o Petronio, alla Marsiliana, dove invece cucinano soprattutto carne e cacciagione, uno dei pochi posti in cui mangio anche il cinghiale. E Da Maria a Capalbio, che fa cucina maremmana autentica, povera ma di qualità.

E all’estero?
Quando viaggio cerco di assaggiare le specialità locali, a patto che non siano troppo elaborate. Delle cucine straniere mi piace la cinese, ma quella fatta in casa, diversissima dall’altra che trovi nei ristoranti, che fa tanto McDonald’s, uguale dappertutto: un effetto della globalizzazione.

Potrete trovare qui l'impaginato dell'articolo, pubblicato su Slowfood 32.

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