Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

6/27/2007

Pubblicità progresso? Vol. IV

La quarta puntata dedicata al mondo della pubblicità alimentare, tratta da un'inchiesta ospitata su Slowfood 27. L'impaginato dell'articolo lo trovate qui.



Se pensiamo oggi alla pasta, ci sembra scontato che si tratti dell’alimento per antonomasia degli italiani, e che le cose stiano così almeno da diversi secoli. Eppure, la storia del costume degli italiani ci dice che appena trent’anni fa questa considerazione non era affatto scontata. Negli anni Sessanta e Settanta l’uso della pastasciutta era, infatti, diffusamente vissuto come una sorta di “analfabetismo alimentare”, tipico del folclore locale, un’alimentazione gastronomicamente rozza e poco dietetica. Un certo mito del progresso alimentare che dominava negli anni del post boom economico induceva a saltare il primo, a favore della carne o della mozzarella. La pasta era considerata provinciale, di basso pregio, plebea e ingrassante.

Modernità e tradizione
Solo a partire degli anni Ottanta assistiamo all’inversione di tendenza, forse anche a ragione di una ritrovata fiducia in se stessi e nei propri valori secolari da parte degli italiani; e si diffonde contestualmente il mito della dieta mediterranea. L’affermazione: «La pastasciutta è una delle cose che mi piacciono di più» trova nel 1985 appena il 31,6% di consensi, ma arriva nel 1993 già al 43,3%.
È in questo quadro oscillante di valori che si inquadra la storia della pubblicità della Barilla, la principale azienda produttrice di pasta in Italia.
Il pastificio Barilla nasce a Parma nel 1877, ma solo nel 1910 acquisisce la dimensione industriale che manterrà da quel momento in poi. L’attenzione nei confronti della comunicazione pubblica caratterizza l’azienda fin dall’inizio e troviamo numerose pubblicità, soprattutto negli anni Venti e Trenta, in cui l’immagine della sua pasta è declinata secondo le forme déco e post-futuriste che rappresentano in Italia in quegli anni l’immagine della modernità. È evidente già da allora, dunque, il binomio su cui si situerà, con innumerevoli variazioni, tutta la pubblicità dell’azienda fino a oggi: da un lato la modernità e l’innovazione tecnica di un’impresa in pieno sviluppo industriale, dall’altra il riferimento alla tradizione, alla manualità operosa e creatrice, alla famiglia.
È solo con la rinascita post-bellica, tuttavia, che lo sviluppo del linguaggio e la diffusione della pubblicità portano la pubblicità stessa a diventare in Italia quello che conosciamo oggi. E questo è vero per l’azienda parmense come per tutte le altre. Prima della guerra la pasta era venduta soprattutto sfusa, e la strategia commerciale della Barilla era stata quella di creare una rete di negozi monomarca. Ma con gli anni Cinquanta le cose stavano già cambiando, e la scelta diventava inevitabilmente quella di puntare sempre di più sul prodotto confezionato, in vista della svolta legislativa che avrebbe vietato dal 1967 la vendita della pasta sfusa.

Riconoscibilità
Una pasta confezionata richiede riconoscibilità, e richiede di conseguenza che l’immagine del prodotto sia ben chiara nella mente dei consumatori quando compiono la loro scelta di acquisto. Il grafico Erberto Carboni, tra i più geniali comunicatori visivi di quegli anni, impostò una serie di campagne pubblicitarie in cui gli elementi raffigurati erano costantemente quelli della tradizione: la pasta stessa, le posate, la famiglia. L’impostazione visiva di questi cartelloni era, però, assolutamente contemporanea e modernista. Il messaggio implicito, e ben raccolto dal pubblico, era quello di una realtà legata al progresso industriale il cui fine era di sostenere i valori tradizionali del buon mangiare: un’accoppiata non facile da accettare, su cui però è vissuta da sempre la comunicazione pubblicitaria Barilla.
Le prime pubblicità televisive, con Giorgio Albertazzi che recitava poesie, e Dario Fo che faceva lo smargiasso del bar, confermano il clima un po’ provinciale e paesano in cui il consumo di alimenti si inseriva. In questo clima Barilla doveva apparire come un buon Grande Fratello, attento a che nulla venisse turbato. Ma la storia procedeva ugualmente, e il boom economico stava già modificando profondamente le carte in tavola, influendo anche sui gusti alimentari degli italiani.
La scelta di centrare le pubblicità televisive dal 1965 in poi su un personaggio carismatico come Mina mostra il bisogno di recuperare in termini di immagine il campo che la pasta (e non solo la Barilla) andava perdendo in quegli anni. Non che in queste pubblicità fossero negati i valori di base dell’azienda, ma era necessario separare l’immagine della pasta da quella dello strapaese. Nei medesimi anni, nella pubblicità sulla stampa comparivano slogan come «insieme, un capolavoro in cucina», per mezzo dei quali si cercava di rivalutare in senso artistico il lavoro quotidiano delle massaie italiane, avviate sulla via dell’emancipazione.
La pubblicità degli anni Settanta è tutta incentrata, invece, sulla qualità della pasta. Siamo in una fase problematica per questo alimento, e la crisi economica ha inoltre imposto un calmiere ai prezzi del mangiare. Ecco dunque l’insistenza sulle qualità del grano duro, e l’inizio di una strategia di valorizzazione della pasta anche dal punto di vista dietetico.

Una nuova linea
Il 1975 è l’anno di nascita di una nuova linea Barilla, quella del Mulino bianco. Il Mulino bianco poneva ai pubblicitari il problema di come presentare una linea di biscotti di qualità media destinati al largo consumo, che proprio per questi aspetti non potevano essere caratterizzati come “superiori”. La soluzione fu trovata nel richiamo, molto sentito in quegli anni, ai valori della campagna, della vita semplice, della genuinità di un mondo preindustriale. Una soluzione così riuscita che Mulino bianco conquistò in pochi anni la leadership nel suo settore.
Lo spot d’autore girato da Federico Fellini nel 1984 si inserisce, invece, nella linea della valorizzazione sociale della plebea pasta. La lei di una coppia di raffinati amanti in un raffinatissimo ristorante in cui vengono proposti piatti dai nomi elaborati, al momento di scegliere il primo, pronuncia con voce e sguardo ammiccante e sensuale: «Rigatoni».
Questa linea di riproposizione della pasta e dei prodotti Barilla in chiave borghese e potenzialmente raffinata sarà seguita da allora fino a oggi. Quando nel 1989 Armando Testa progetterà la nuova campagna del Mulino bianco, ad esempio, non sarà più il mondo contadino a esservi protagonista, ma una famiglia di città che ha ristrutturato un mulino in Toscana e ci è andata a vivere: è l’italiano medio, in piena ripresa economica, che si reimpadronisce dei miti della sua tradizione, miti che Barilla vuole impersonare direttamente.
Ed è così anche per la grande campagna televisiva di Gavino Sanna, sviluppata a partire dal 1985, con lo slogan memorabile «dove c’è Barilla c’è casa» e la musica di Vangelis che ha ossessionato ormai per decenni il nostro buonismo interiore. La pasta Barilla è presentata come il simbolo della casa e della famiglia, della tradizione sana e felice, del mangiare che è buono perché è quello di tutti i giorni di una vita produttiva e piena di affetti, ma per nulla provinciale ormai: la potremmo definire la vita di una famiglia felicemente e attivamente globalizzata.
Poco è cambiato nell’immagine della Barilla degli ultimi vent’anni. Gli elementi messi in gioco sono sempre piccole variazioni di quelli che elencati fin qui. Esemplari sono, rispetto a questo, anche gli spot dell’ultimissima campagna, in cui gli addetti dell’azienda (progettisti, operaie, cuochi…) sono mostrati in parallelo nella loro vita a casa e in fabbrica, per testimoniare come non vi sia differenza nel loro comportamento: a garanzia del fatto che Barilla produce per noi come farebbe una mamma, un amico, un papà. Insomma, ci viene spiegato una volta di più che dove c’è casa e buon mangiare quotidiano non può che esserci anche Barilla.
Daniele Barbieri

Etichette:

6/20/2007

Pubblicità progresso? Vol. III

La terza puntata dedicata al mondo della pubblicità alimentare, tratta da un'inchiesta ospitata su Slowfood 27. L'impaginato dell'articolo lo trovate qui.



Scrivere un articolo sulle bugie inventate dai pubblicitari per promuovere marche di alimenti e bevande non capita tutti i giorni. Prima di elencare le malefatte, è meglio ricordare che siamo di fronte a una categoria di professionisti abituati a raccontare falsità e mezze verità. Per loro è assolutamente normale presentare gli integratori alimentari come dimagranti, paragonare le patatine alle mele o insinuare che l’olio di semi è più leggero dell’olio di oliva.
L’aspetto paradossale è l’impunità riservata a questi signori quando prendono in giro i consumatori. Anche le censure decise dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) o dal Giurì dell’autodisciplina sono state vissute con certa indifferenza, trattandosi di provvedimenti tardivi presi a campagne finite. Questa libertà di dire bugie senza grossi rischi è un privilegio riservato solo ai pubblicitari, forse in virtù dell’enorme quantità di denaro che versano a giornali, radio e tv. Per rendersene conto, basta dire che una campagna televisiva in prima serata di tre settimane, costa almeno 3 milioni di euro (ma si può arrivare anche a 10 come è successo anni fa a una marca di acqua minerale).
Per fortuna la situazione è cambiata nel novembre 2005, con l’approvazione di una legge che permette all’Agcm di sanzionare i pubblicitari troppo disinvolti. Le sanzioni nel settore alimentare hanno quasi raggiunto 1 milione di euro, e riguardano grandi e piccoli inserzionisti.

Via la pancia, con l’olio
Per capire i motivi che spingono i pubblicitari a raccontare bugie bisogna fare un passo indietro, e focalizzare per un istante l’attenzione su Carosello. Nello sketch dell’olio Sasso l’attore Mimmo Craig sogna di essere obeso. Quando però si sveglia e scopre che si trattava di un incubo, inneggia all’olio con il famoso ritornello: «La pancia non c’è più…». La realtà è, invece, molto triste perché la lattina verde contiene un banale olio di oliva e non fa certo sparire la pancia .
Da allora le cattive abitudini dei produttori di olio sono continuate con ottimi risultati. Basta citare le campagne televisive che hanno convinto milioni di italiani ad acquistare lattine di mediocre olio di semi per friggere. Un altro esempio disastroso riguarda l’olio Cuore, venduto per trent’anni a un prezzo assolutamente stratosferico, grazie alla presunta leggerezza e all’aggiunta di un pizzico di vitamine (uno dei messaggi è stato censurato dall’Agcm nel 1998). Anche le etichette dell’olio extra vergine Carapelli, Monini, Carli nel 1997 sono state modificate su richiesta dell’Agcm perché lasciavano intendere che l’olio provenisse da regioni italiane.

Cellulite addio, con l’acqua
Il capitolo delle acque minerali è ricco di episodi significativi. Nel 2002 il Giurì dell’autodisciplina pubblicitaria ha censurato quattro aziende per avere attribuito al prodotto caratteristiche salutistiche inesistenti. Gli slogan utilizzati sono abbastanza eloquenti per capire i motivi del provvedimento:
Lila «aiuta a combattere i radicali liberi e a rimanere giovani»; Danone Vitasnella «aiuta a prevenire la ritenzione idrica dei liquidi nei tessuti… bevendola ogni giorno il tuo corpo si sentirà sempre più snello più leggero e in forma»; l’acqua minerale Lete «contribuisce a ridurre il rischio di ritenzione idrica e quindi di cellulite e di ipertensione arteriosa» e anche le bottiglie Santa Croce «aiutano a prevenire la ritenzione idrica».
Contrariamente a quanto ribadito nei messaggi non esistono acque minerali che riducono la cellulite, diminuiscono la ritenzione idrica e aiutano a restare giovani, ma solo pubblicitari con molta fantasia e troppa furbizia.

Mangia quanto vuoi e non fai fatica, con un dimagrante
Un segmento molto gettonato è quello degli integratori alimentari spacciati quasi sempre come dimagranti miracolosi. Nel 2006 l’Agcm ha censurato ben 17 messaggi assegnando pesanti sanzioni. Nonostante ciò le campagne continuano, perché i prezzi di vendita sono esageratamente elevati e permettono massicci investimenti e discreti guadagni a tutta la filiera commerciale.
Nella lista troviamo Capturia, Solubel, Quick diet, integratori a base di erbe naturali che garantiscono una notevole perdita di peso – fino a 20 chili … senza diete drastiche, senza attività fisica esagerata (47 500 euro di multa). Irresistibile snelly è un «trattamento completo per perdere fino a 8 chili nel giro di 30 giorni… fino a 15 chili (durata 60 giorni)… fino a 20 chili (durata 90 giorni)» (45 000 euro di multa). I messaggi di: Cellu-light, Linea & fibra, Fibra-line, Gambo d’ananas, Chitosano e Alga snella lasciano intendere che l’assunzione può avvenire in modo indiscriminato, senza alcuna controindicazione (22 000 euro di multa). Dimafango si presenta come un «trattamento riducente localizzato» a base di fanghi del Mar Morto indicato per il trattamento localizzato delle adiposità (18 600 euro di multa ).
Nell’elenco dei censurati troviamo anche Ise dimagrire mangiando che promette di «perdere 2-3 chili a settimana, senza dieta, senza farmaci, senza sentire fame» (28 000 euro di multa); Ok linea che dichiara «… perdere tutti i miei chili di troppo in 19 giorni continuando a mangiare tutto quello che piace» (46 200 euro di multa), American diet system giorno e notte e New American diet system giorno e notte (53 600 euro di multa) .
La società International Best Seller dovrà pagare una multa di 47 000euro, per avere spedito stampati dove si pubblicizza il dimagrante RapidSlim. Secondo il testo le alghe marine contenute nel prodotto sono vere «divoratrici di grasso… fanno perdere 1-2 chili al giorno senza provare stanchezza, senza sforzi, senza privazioni, continuando a mangiare e bere ciò che si vuole».
L’azienda che negli ultimi anni si è distinta per avere collezionato decine di censure anche da parte dal Giurì è la Roeder Farmaceutici 1956. La lista dei messaggi condannati comprende KaloCell line (un integratore alimentare presentato come prodotto per combattere la cellulite e in grado di ridurre la circonferenza delle cosce). Il più famoso è forse Blokcal che «riduce l’assorbimento dei carboidrati complessi di pane e pasta fino a 1000 chilocalorie». Gli ultimi messaggi condannati nel 2006 riguardano Kalo slim patch (riduce naturalmente pancia e fianchi), Drenax+, Kalo uomo active (elimina il sovrappeso, brucia i grassi e scolpisce il fisico) oltre a Kalo rapido fibra liquida e Kalo rapido notte.

Succhi con poche arance e yogurt senza grassi
Pochi sanno che i succhi di arancia Ace sono bibite ottenute prevalentemente con acqua e zucchero. La quantità di succo di arancia varia dal 20 al 50%, ma molti consumatori non se ne rendono conto, per via degli addensanti e dei coloranti che conferiscono alla bevanda l’aspetto e il sapore del succo vero. Naturalmente nelle varie pubblicità si esalta sempre la presenza di vitamine, ma non si cita la percentuale di succo. L’informazione, però, compare in caratteri minuscoli nella lista degli ingredienti sull’etichetta. In questo caso non c’è un inganno palese, ma molta ambiguità supportata da campagne pubblicitarie efficaci e da immagini molto belle sulle bottiglie. L’elemento più subdolo è però il prezzo dei succhi Ace che risulta doppio rispetto ai succhi di arancia 100%.
Anche i messaggi dello “yogurt senza grassi” sono ambigui perché lasciano intendere che il vasetto contiene pochissime calorie. In realtà lo yogurt senza grassi per avere un gusto accettabile è arricchito di zuccheri, frutta e soprattutto proteine per cui alla fine risulta il contenuto di calorie si può equiparare a quello di uno yogurt magro.

Quelle patatine troppo leggere
I pubblicitari cercano in tutti i modi di presentare le patatine fritte come uno snack leggero, anche se si tratta di un prodotto ricco di grassi. Poco tempo fa l’Agcm ha condannato le patatine Wacko’s della San Carlo a una multa di 51 100 euro per lo scorretto paragone tra le patatine e la mela. Gli esperti dell’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione hanno verificato che, contrariamente a quanto detto nel messaggio, il frutto contiene un terzo delle calorie e una quantità di grassi 100 volte inferiore.
Anche le patatine fritte surgelate Patasnella sono presentate nel sito internet dell’azienda come un prodotto con «il 70% in meno di grassi rispetto alle patatine tradizionali». In realtà, secondo l’Istituto nazionale il contenuto di grassi delle patatine fritte fatte in casa è simile a quello di Patasnella. Per questo motivo l’Agcm ha condannato la società Pizzoli a pagare una multa di 36 100 euro e a sostituire le etichette.
Si può completare l’argomento citando lo spot di Amica Chips presentato dall’attore porno Rocco Siffredi. La pubblicità delle patatine è stata censurata dal Giurì, per uno slogan a doppio senso che paragonava il tubero di patata in versione snack alle belle ragazze intorno alla piscina.

La lista potrebbe continuare raccontando le censure delle finte bevande analcoliche o delle finte uova del contadino. Purtroppo lo schema è sempre lo stesso ed è difficile modificare la situazione, perché il più delle volte non si tratta di errori casuali ma alla precisa volontà di ingannare il consumatore.
Roberto La Pira

Etichette:

6/18/2007

Pubblicità progresso? Vol. II

La seconda puntata dedicata al mondo della pubblicità alimentare, tratta da un'inchiesta ospitata su Slowfood 27. L'impaginato dell'articolo lo trovate qui.



Le marmotte preparano e confezionano tavolette di cioccolato, in una tipica casetta di montagna, ma lavorando in stile catena di montaggio. Dall’esterno, un tizio – turista o escursionista – le osserva stupito, poi torna il città e racconta con entusiasmo cosa ha visto a una tizia. Che lo guarda con compatimento e acconsente: «Sì, certo le marmotte…», come si fa coi matti. È una pubblicità televisiva che, in modo simpatico, prende in giro le fantasiose pretese di naturalità vantate da molti prodotti, “solo i matti ci possono credere”. E il racconto dei diversi metodi di lavorazione del cioccolato, sempre effettuati dalle marmotte, prosegue in altri spot (Nb: le marmotte sono vistosamente finte, come gli orsi loro colleghi di lavoro).
Un’altra pubblicità televisiva autoironica è quella in cui Alessandro Gassmann è in compagnia, a casa di amici, e beve whisky. Una ragazza lo vede e dice «Tu sei, tu sei…», riconoscendolo ma un po’ incerta sul nome. Gassmann è compiaciuto. Resta però stupito quando conclude: «Tu sei Michele!» e, guardando in macchina, lui chiede, con accento romanesco: «Ma chi è Michele?». Michele era l’intenditore che nella pubblicità dello stesso whisky, una ventina di anni fa, era capace di riconoscere quel liquore a occhi bendati e che, ai tempi, era diventato un tormentone (ma quanti se lo ricordano ancora?). In generale non sono molte le pubblicità italiane autoironiche o particolarmente innovative. Soprattutto in televisione, mezzo che comunque rastrella la quasi totalità degli investimenti relativi ai prodotti alimentari (vedi tabella).

La fiera del superfluo
«La pubblicità italiana è particolarmente arretrata, anche rispetto, ad esempio, al Sudamerica. È conservatrice, tradizionale, ha paura di rischiare» dice Vanni Codeluppi, docente di sociologia dei consumi allo Iulm di Milano. Segno di questo è il fatto che l’Italia non prende mai premi, tra i molti previsti in svariate sezioni, al Festival internazionale della pubblicità di Cannes (unica eccezione, in tanti anni, la lavatrice con l’oblò-acquario, ma non è alimentare). Ribadisce Ugo Volli, professore di filosofia del linguaggio e autore di Semiotica della pubblicità (Laterza, 2005): «La pubblicità si rivolge alle masse, a milioni di persone per vendere loro milioni di articoli, non può essere troppo avanti o troppo strana». E, dati i costi, chi può permettersi di farla sono i grandi gruppi industriali. Un sistema che esclude i piccoli produttori, gli artigiani, chi lavora legato a un territorio. Un altro importante settore pubblicitario, meno considerato e probabilmente meno interessante dal punto di vista dell’analisi comunicativa, è quello delle televendite, dei volantini portati casa per casa, delle promozioni dei supermercati. Qui il messaggio è chiaro e univoco, spendere poco. E lo stile si adegua, privo di fronzoli, pauperistico o addirittura rozzo. Spesso anche la carta e la stampa sono grossolane, come a ribadire che non c’è spreco, si va al sodo, al risparmio.
Tornando alla televisione, quali sono gli alimenti maggiormente pubblicizzati? Il professor Volli li riassume in cinque categorie: dolci e biscotti (ovvero “prodotti industriali da forno”), gelati, surgelati, aperitivi alcolici e soft drink, e, alla fine, quasi per controbilanciare gli altri, i “dimagranti”. Ovvero, cose superflue, tipiche di una società sazia, dove il necessario per sopravvivere, almeno dal punto di vista alimentare, è assicurato a tutti. Un caso esemplare a questo riguardo è la Ferrero, che investe enormemente in pubblicità (vedi tabella), con stili e moduli diversi per ognuno dei suoi tanti prodotti, che in fondo sono “superflui”, goloserie per grandi e piccini.
Aggiunge Volli: «Sostanzialmente, i prodotti alimentari, di ogni tipo, sono tutti uguali. Ed è compito del messaggio pubblicitario fare la differenza, tramite valori immaginari». Il whisky e il cioccolatino sono associati a feste di gente “bella e felice”, l’acqua minerale “fa dimagrire”, il gelato aggiunge sex-appeal, lo yogurt rende sani e belli, anzi, sane e belle.

La famiglia: conservatrice e anticonformista
In generale, le pubblicità alimentari giocano molto sugli stereotipi familiari, la mamma contenta di stare legata ai fornelli e fondamentalmente casalinga, anche se, purtroppo, in alcuni casi, deve lavorare, i bambini rompicoglioni ma inevitabilmente adorabili, il papà capofamiglia che esce e va nella giungla urbana a procurare il cibo e così via (ma, quanto a luoghi comuni, i peggiori sono i detersivi e le sostanze varie per pulire la casa). Terribile è la bambina che prepara la merenda a dei pupazzi di pelouche, lamentando che il suo pelouche-figlio invita a casa gli amici. Analoga la bambina che fa finta di servire il tè a un orso di pezza o qualcosa di simile. Tristi prefigurazioni di donne oppresse e oppressive. E, a proposito della rappresentazione della donna, è da notare l’uso e l’abuso, in Italia, del corpo femminile seminudo e ammiccante in ogni tipo di pubblicità, non solo cosmetici e biancheria intima, ma anche e soprattutto telefonini, automobili, colle (sì, prodotti per incollare) e quant’altro. Forse più grave, come impatto sociale negativo, il perenne contrasto tra la golosità femminile, la lussuria con cui le donne azzannano e gustano biscotti, spaghetti, gelati, cioccolato, e la drammatica necessità di essere magre. Non è salutismo, è repressione, colpevolizzazione delle donne e dei loro appetiti. Un ennesimo incentivo all’anoressia e ai disturbi alimentari.
Vale la pena di notare i messaggi diversi dal modello familiare conformista, sempre restando in ambito televisivo. Nel recente spot di un dado, è il giovane maschio che prepara il pasto, usando il pizzico di granulato come perfezionamento della sua ricetta. Arriva la giovane femmina invitata e lo abbraccia. Ma, è evidente, lui ha soltanto preparato la trappola, la sua abilità di cuoco è un trucco momentaneo per accalappiare la preda, l’unico piatto davvero appetitoso, la quale dovrà poi cucinare per il resto della sua vita. Più moderna la mozzarella impanata che serve da lubrificante sociale tra le nuove famiglie allargate, agevolando la conoscenza amichevole con il secondo marito della madre e tra i vari rispettivi figli adolescenti. C’è anche un sugo pronto che aiuta il nuovo fidanzato della mamma a rendersi simpatico a un maleducato bambino.
Opposta agli stereotipi e vagamente anticonformista la scenetta in cui è la nonna a rifiutare l’invito a pranzo di figlio e nuora per starsene da sola, a gustarsi in pace il suo surgelato (ma ricorda la storiella, sempre di pubblicità televisiva, della nonna che, in assenza dei più giovani, ha organizzato una festa e gozzovigliato con gli amici, ma che vuole mantenere con i figli la sua immagine di vecchietta triste e sola: l’aiuta un detersivo per pavimenti super efficiente che cancella velocemente le tracce del divertimento). Ma tra le pubblicità più originali e più belle, ben pensate e ben girate, ci sono quelle delle gomme da masticare. I ragazzini morbosi e foruncolosi che, grazie alla gomma, da sotto una grata soffiano con grande energia tra le gonne delle compagne di scuola. Ambientazione e costumi tipicamente inglesi. L’aria condizionata, in un posto di lavoro dall’aria sudamericana, è emessa da un uomo sistemato dietro un apparente condizionatore, tenuto in funzione con il chewing gum. C’è poi il ragazzo con un giubbotto di pelliccia che viene colpito da un dardo anestetizzante. Nelle prime immagini sembra una tipica scena di filmato naturalistico, dove un animale viene addormentato per poterlo esaminare con calma. Infatti la conduttrice gli apre la bocca ed esamina i denti, concludendo: «Tipici denti sani da finlandese».
Anna Mannucci

Etichette:

6/13/2007

Pubblicità progresso?

La prima puntata dedicata al mondo della pubblicità, tratta da un'inchiesta ospitata su Slowfood 27. L'impaginato dell'articolo lo trovate qui.



Una storia in cinque cartelle della pubblicità alimentare in Italia sarebbe un’assurdità, un pasto in pillola. Meglio focalizzarne il punto a partire dal quale comincia la nostra storia, prima del quale, tra cartelloni e voci della radio, si avvertivano i segni di un coordinamento tra produzione, comunicazione e consumo, ma non le tecniche di persuasione americane e la loro pervasione odierna.
Con réclames, affiches e dépliants: la pubblicità ha incominciato, nell’inizio del Novecento, a parlare francese, e i migliori artisti italiani, come il livornese Leonetto Cappiello, disegnavano a Parigi. Dopo la seconda guerra mondiale essa ha cambiato vocabolario, mettendo a fuoco le strategie, fissando il budget, programmando uno spot. Si sono visti cartelloni fluorescenti o montati su automobili per promuovere un dentifricio, poi la televisione ha risucchiato ogni bene di consumo.

Linguaggio obsoleto
Ma analizzare la pubblicità alimentare, significa non solo studiare i supporti delle campagne o comparare i manifesti della Nestlé prima e dopo la seconda guerra mondiale, ma anche cogliere la specificità di un mercato di cui solo una parte accedeva e accede alla promozione, restando esso ancora formato da quelle che, con nostalgia, sono oggi evocate con il termine di piccole aziende, filiere corte, consumi di nicchia. Certo è che, dagli anni Cinquanta, dopo una fallimentare politica autarchica, l’industria alimentare si è riorganizzata con gli obbietivi che oggi ben conosciamo, ed è dagli stessi anni che comincia il declino della varietà in campo agricolo e zootecnico e nell’artigianato, un declino sfociato nella reazione dei gastronomi all’agribusiness.
Gli anni Cinquanta vedono da un lato il rilancio della grande industria, l’esodo della popolazione dalla montagna e dalle campagne verso le città del nord, le prime indagini Doxa sui consumi alimentari e la progressiva scomparsa delle osterie, intese come mescite di vino. Dominano nel panorama pubblicitario: la velocità (Supercortemaggione, Vespa, Lambretta), la salute (Binaca, Cibalgina) e la chimica (Ddt, aerosol e, tra i detersivi, il Lauril). Per quanto riguarda il cibo, oltre ai prodotti Perugina ben noti nel ventennio, tutti conoscono il formaggino Mio della Galbani o il Cremifrutto Althea, “la merendina preferita” nel 1952 in vendita con il regalo di un francobollo. Ma non bisogna sopravvalutare i segnali del mercato e la cultura dei campioni di riferimento, come se la gran parte dei piccoli produttori, dei commercianti di vino, non esistesse. La Doxa nel 1950 ha rivelato che alla domanda: «Quali sono i vini bianchi da pasto che preferite?» il 55% degli intervistati non ha saputo fornire un solo nome, mentre il 14% ha parlato di «vino locale, nostrano, comune1».
Invocare la ricostruzione del paese, i redditi modesti del terziario, il ritardo culturale delle campagne, la miseria nera dei contadini siciliani che Danilo Dolci aveva scelto di condividere, non spiega tuttavia come la pubblicità agisse in modo così lacunoso e, sempre nei centri urbani o sulle grandi arterie stradali, continuando a offrire prodotti con linguaggi spesso obsoleti, nella nuova repubblica. Leggiamo alcune etichette di vini e liquori; esse sono, negli anni Cinquanta, d’altri tempi: l’eterno castello della casa vinicola del Barone Ricasoli, i tre valletti Sarti o la femme fatale verde come l’assenzio, dell’anisetta Meletti. Anche a consumatori analfabeti, parchi e parsimoniosi, i linguaggi della pubblicità avrebbero dovuto far sognare un futuro, non il passato remoto, le mode dell’ancien régime, della belle époque, del liberty. Ma in Italia avviene il contrario, la modernità spaventa chi beve vino e consola chi prende l’aperitivo, e, paradossalmente, mezzo secolo dopo, contadini e artigiani diverranno attori, in quanto rappresentanti di economie alternative, di tradizioni estinte.

Tci: credere non dalle prove ma dal piacere
Per tutti gli anni Cinquanta, il Tci ristampa la Guida gastronomica d’Italia del 1931, omettendo la pubblicità che aveva avuto inserzionisti quali Buitoni, Sperlari, Aurum, Olio Sasso e Fiuggi. Per ciò stesso, la guida appare come l’altra metà dell’industria alimentare, la parente povera, e non più la sposa autarchica di un regime che, nella sua promozione, accorpava il bifolco, il milite e l’industriale. Nel 1969 uscirà, con il medesimo titolo, la seconda edizione aggiornata (con pubblicità di soli vini ed enti turistici). Il richiamo, ben noto, all’editoria del Tci, ha qui una ragione strumentale. A coordinare e firmare la nuova edizione è Felice Cùnsolo, autore, nel 1953, di un volume su Il potere della pubblicità2 in cui se ne traccia la storia e se ne delineano le strategie. È un professionista stimato del campo e un uomo colto che non esita a scegliere per epigrafe di quel volume la frase di Pascal: «Les hommes sont toujours emportés à croire non par la preuve mais par l’agrément» (gli uomini sono portati a credere non dalle prove ma dal piacere). Piccola economia e degustazione da un lato – Cùnsolo enfatizza l’importanza dei vini quali gli indicatori locali della qualità – e industria alimentare e consumi dall’altro. Ma un pubblicitario può essere anche gastronomo? Cùnsolo risponde di sì, a patto che sappia distinguere i ruoli, svestendo la giacchetta del cartellonista quando indossa la casacca del degustatore e del socio del Touring.
Che siano due mestieri diversi lo si capisce dalla materia stessa cucinata e, soprattutto, dal modo di scegliere o di offrire il cibo. Il capoufficio propaganda dell’Ente Nazionale Risi, Mazza, dopo un sondaggio Doxa (febbraio 1950), lancia una campagna nelle scuole, presso le massaie, distribuendo fascicoli dal titolo “Sai cucinare il riso?” e capta l’attenzione della società più determinata a rinnovare un paese semidistrutto, con immagini suggestive. In una, c’è una giovane donna che telefona sdraiata, gonna blu corta e tacchi alti, una divina creatura con un sacchetto di riso accanto. Che significa quel sacchettino di tela? Salute, gioventù e soprattutto una bella linea. Era così che si sarebbe dovuto mangiare l’icona e il riso in Italia. Non era così che lo si consumava. Alla fatale domanda: «Per quale ragione non si mangia riso nella sua famiglia?», il 15% degli abitanti delle isole rispondevano laconicamente: «Preferiamo la pasta», e il 52%, in tono ancor più cupo: «Piace poco a tutti3». Mazza era proprio sicuro che la bella signorina sdraiata, con il telefono all’orecchio, avrebbe convinto all’acquisto quel 52% di siciliani e di sardi e che non sarebbe stata lei stessa oggetto di diffidenza e sospetto?
Pubblicitario e consumatore non hanno sempre la stessa nozione di qualità, anzi esistono fasce di consumatori non ancora educati o renitenti al messaggio e, quello che è più grave, nel 1969, operatori della pubblicità che ritengono preferibile, o qualitativamente migliore, un prodotto senza immagine, un san Carlin della Valsassina o una robiola di Roccaverano, alla forma di Belpaese Galbani con tanto di abate Stoppani. Quest’ultimo prodotto subisce un restyling curioso alla voce melzo della guida del 1969, perdendo la sua paternità industriale: «Melzo. Pesce d’Adda. Rane. Lumache. Formaggio belpaese, robiole, crescenze, burro. Prosciutti, cresponi, zamponi, cotechini», come se nessuna industria lattiero-casearia avesse sede in quel paese4. A Melzo, non ci sono industrie, solo latticini.

Grandi sistemi, piccoli sistemi
Ma, dopo quella del 1931, la guida gastronomica del 1969, comporta qualche pagina di pubblicità. La sua raccolta ha cambiato totalmente indirizzo, e non vi troviamo più le grandi industrie, Perugina o Buitoni, ma vini e aziende turistiche. L’approdo di un vino negli spazi finali e fuori testo di questa guida, rappresenta non solo una valutazione d’eccellenza da parte del curatore ma la scelta di campo di un’azienda che preferisce avere fianco a fianco vini senza il nome del produttore, formaggi senza confezione e senza carosello, che non bibite americane e aperitivi piemontesi. Infatti leggiamo i nomi di questi inserzionisti: Chianti Ruffino, Michele Mastrobernardino, Rivera Rosé, Ghemme di Guido Ponti, Vini d’Ischia d’Ambra, Vini Corvo, Marchesi di Barolo.
Il divorzio tra pubblicità e specialità enogastronomiche, tra grande e piccola produzione, data a partire dagli anni del boom economico, ed evolve, nelle case italiane, con un prodotto industriale che mangia una parte sempre meno importante del salario, e un prodotto locale che si rarefà e vale, in termini oltre che monetari, culturali, sempre di più. La réclame delle aziende turistiche, nella guida del 1969, mostra chiaramente che il raccordo tra i due sistemi, grande e piccolo, industriale e artigianale, non trova interpreti efficaci nelle pubbliche amministrazioni. Queste adottano i toni della peggiore ispirazione, pensando di accalappiare il turista con miraggi e banalità. La Tremezzina (Provincia di Como) vanta inesistenti «risotti alla comacina», erotici «carpioni del golfo di Venere» e «i brasati e gli stufati di antica memoria lombarda», tanto antica da essere totalmente scomparsa sulle rive del Lario. A Gorizia, la tavola è solo “genuina”, un aggettivo che sa d’igiene e di scaramanzia, mentre in Abruzzo la cucina è addirittura “patriarcale”. Le aziende turistiche promuovendo male, rendono ancor più inefficace la pubblicità dei prodotti che sono in realtà, voci di menù, piatti da trattoria, specialità della casa. Un’associazione presente su tutto il territorio nazionale come il Tci riempirà il ruolo di mediatore tra le diverse realtà della produzione e trasformazione degli alimenti.
Non mancano nelle campagne dell’inizio anni Cinquanta, segnali di una sensibilità alla sfera gastronomica – in particolare la campagna finanziata dalla Regione Sicilia per promuovere agrumi e vini, gli uni con richiami alle proprietà salutari, gli altri con le terre di produzione e con abbinamenti al cibo –, ma la pubblicità vede nei contadini solo consumatori irrecuperabili, e nei sapori delle vivande la parte grezza e volatile di un bene di consumo. Il divorzio, e la figura di Felice Cùnsolo ne è la miglior testimonianza, si è ormai consumato. Gran parte della storia successiva della promozione cercherà di rimescolare le carte, travestendo gli attori da contadini, inventando mulini e fandonie, ribattendo fino alla nausea il ruolo della famiglia media italiana o enfatizzando le trasgressioni sessuali presenti in una bevanda alcoolica, senza recuperare una visione complessiva dell’ambiente, dell’agricoltura e del consumo alimentare, asservendola a un marketing del profitto, con l’idea che tanto gli uomini sono portati a credere non dalle prove ma dal piacere o da quello che ne fa le veci. Alberto Capatti

Note
1. Pierpaolo Luzzato Fegiz, Gli italiani e il vino Edizioni Doxa, 1952, p. 38.
2. Felice Cùnsolo, Il potere della pubblicità, Organizzazione Tipografica Pubblicitaria, 1953.
3. Pierpaolo Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia, Giuffrè, 1956, p. 77.
4. Guida gastronomica d’Italia di Felice Cùnsolo, Tci, p. 94.

6/09/2007

Pollenzo Mon Amour

L’Agenzia di Pollenzo (3 km da Bra, Cn) apre le porte per cinque serate di festa, aperitivi, degustazioni e musica che si terranno dal 6 al 28 luglio, nel cortile dell’Albergo dell’Agenzia e dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche.



Venerdì 6 – Etnie sonore, culturali e gastronomiche
Tre grandi cucine etniche torinesi, sotto la regia di Chef Kumalé, il Gastronomade: ceviche e papas a la huancaína della Gastronomía Peruana El Tambo; samosa, pulao e halva del ristorante indiano Gandhi e il doner kebap del Kirkuk Kafé, in accompagnamento alla birra Sveva del birrificio Grado Plato di Chieri.

h. 19,00 Dj Martina & Rinatz, lounge take away, chill out con carne, un pizzico di rock, gocce di pop di stagione, lasciar raffreddare e consumare prêt-à-porter;
h. 21,30 L’orchestra di Porta Palazzo, dalla musica delle vecchie osterie di Borgo Dora alle percussioni africane, con accenni all’Oriente e al Sud America. Storie d’immigrazione sul pentagramma, congas e violini, doum-doum e fisarmoniche, dal Veneto o dal Senegal.

Venerdì 13 – La notte della pizzica
La Puglia salentina in tavola, con mozzarelle, ricottine, giuncatine, fagottini di ricotta, pampanelle, formaggi stagionati, orecchiette alla crudaiola, taralli e friselline, accompagnati dai vini locali, in collaborazione con la condotta Slow Food dell’Alto Salento.

h. 19,00-24,00 Le pizziche del Basso e dell’Alto Salento, il tarantismo di terra e di acqua insieme sul palco pollentino. Uccio Aloisi, Testimone della Cultura Popolare e maestro indiscusso del genere col suo Gruppu e le fisarmoniche, gli organetti, le mandole, i mandolini, le chitarre battenti, la “cerimonia dell’acqua” dei Taricata. Un’occasione per ballare a piedi scalzi fino a notte fonda sui ritmi indiavolati dei tamburelli!

Venerdì e sabato 20-21 – Al crocevia di Langhe, Roero e Monferrato
Pollenzo, terra d’incontro delle tre anime della gastronomia di qualità piemontese. Gusterete farinata, Barbera e bollicine Alta Langa, in collaborazione con l’Enoteca Regionale di Nizza Monferrato e la condotta Slow Food delle colline Nicesi; cartoccio di pesci di fiume a cura dell’associazione Il Ponte di Pollenzo; salumi, formaggi e torta di nocciole a cura della condotta Slow Food di Dogliani e Carrù insieme ai vini della Bottega del vino; gran carpionata con i vini dei produttori di Serralunga d’Alba, friciule con lardo preparate dall’Associazione Pro Loco per il Roero, in accompagnamento ai vini dei giovani produttori della rive gauche del Tanaro.

Venerdì h. 19,00 Dj Mostricci of sound, hip hop, reggae, '80, italotrash, so'90, drum'n bass, Mtv fake hits, dancehall, new wave, indie modaiolo… mixati con incoerenza;
h. 21,30 El Tres, due voci, due chitarre, percussioni afro-cubane, cajon, mandolini e violini in un mood allegro, vivace e ritmato;

Sabato h. 19,30 Chef @lbertfield, techno battuta al coltello, carpaccio di reggae, zuppa di hip hop, ribollita di new wave, mousse di colonne sonore e punk con le bollicine;
h. 21,30 Bruskoi Prala, violino, chitarra, voce, fisarmonica, contrabbasso per danze e ritmi zingari, sensuali arie mediorientali e scottish occitani.

Sabato 28 - Finale in giostra e mille bolle
Ostriche e bollicine per palati super-esigenti, ma anche panini di burro e acciughe, salame e formaggi, gelati dei Presìdi di -18, i dolci delle Tre-Marelle, in accompagnamento alle bottiglie della Banca del Vino. Una festa per grandi e piccini!

h. 17,00 Scuola di circo per bambini da 5 a 12 anni;
h. 17,00 La musica occitana dei Farandoulaires – rondeau e courente, mazurca e bourrée – a spasso nel cortile dell'Agenzia;
h. 17,00 il Microcirco parodico e romantico di Charlotta e Caramella;
h. 19,30 Dj Carlo Boogie, un set eterogeneo a base di indielicatessen, rock, soul, pop per animi gentili e ritmi maliziosi;
h. 22,00 Jumpin’Shoes, sax, ottoni, contrabbasso, batteria e pianoforte in doppiopetto gessato lasciano insinuare la calda voce in paillettes, Cab Calloway e Louis Prima, Benny Goodman e Duke Ellington, swing e jazz degli albori, quando si ascoltavano soltanto a piedi fumanti.

A cura di:
Comune di Bra
Agenzia di Pollenzo
Ente Turismo Alba Bra Langhe e Roero

In collaborazione con:
Università degli Studi di Scienze Gastronomiche
Banca del Vino
Ristorante Guido
Albergo dell’Agenzia
Condotta Slow Food Bra e Alba
Associazione Il Ponte
Festival delle Province
Hiroshima Mon Amour

Con il contributo di:
Banca d’Alba


Per informazioni:
pollenzomonamour@agenziadipollenzo.com
comunicazione@unisg.it
Agenzia di Pollenzo
tel. +39 0172 458600 / +39 0172 458507 / +39 329 9079186

Etichette: ,

6/06/2007

Slowfood 27 on-line

E' in linea Slowfood 27.
Qui trovate il sommario, con tutti gli articoli scaricabili in pdf.

Etichette:

6/04/2007

L’aringa ha cantato - Due mesi in tour con De Boekaniers

Un'altra tappa del viaggio del nostro etnomusicologo, alla ricerca di suoni e tradizioni del mondo. Tratto da Slowfood 26…



Era pomeriggio tardi e avevamo appena finito un lungo viaggio in autobus. L’Olanda e casa nostra erano otto ore dietro di noi e ci aspettavano tre giorni e tre notti di cibi, bevande e canti in uno dei più grandi festival di canti marinareschi della Germania. Mentre scendevo rattrappito dalla macchina agognando il dormitorio e un sonnellino, un omone dall’aspetto bonario vestito da pirata avanzò incespicando verso di me con una bella manciata di pesci freddi e uno stentato inglese in bocca: «Benvenuto in Germania! Op de haaring!». Ho capito che il pisolino era sfumato.
Come ho appreso nel parcheggio tra sorsate di birra e pezzi di pane, l’espressione op de haaring ha due significati. Il primo è un modo di mangiare, in cui si solleva un filetto crudo di aringa sopra la faccia, si tira indietro la testa e si lascia cadere il filetto in bocca. Questo gesto, quando è eseguito alla perfezione, è accompagnato una quantità di suoni che indicano piacere mentre si inghiotte il sottile filetto e, se si è fortunati, si riceve un tuonante evviva da parte degli astanti. Quella sera, sul marciapiedi accanto all’autobus, poi più tardi nel dormitorio e, ancora, dopo cena e in piena notte, sono stato davvero fortunato. Non avevo mai mangiato tanto pesce crudo, mai sentito tanti olandesi acclamanti.
Il secondo significato di op de haaring è racchiuso nell’omonima canzone, le cui parole descrivono la fatica di tirare a bordo a mano reti cariche di pesce. La melodia è cantata da un gruppo di scatenati esecutori olandesi di canzoni marinaresche, De Boekaniers. Ho viaggiato e cantato per due mesi con questa bizzarra banda perché mi dava modo di capire il rinnovato successo dei canti dei marinai in Europa centrosettentrionale.

Unità, forza e convivialità
Secondo la versione più accreditata, i cori marinareschi sono nati in Olanda e in Germania una quindicina di anni fa. I primi gruppi, formati da pochi individui ciascuno, si ritrovavano di sera per ricostruire i canti che un tempo accompagnavano il lavoro o erano intonati per puro piacere a bordo dei velieri d’alto mare. Senza sapere che cosa sarebbe successo, sono stati di fatto i pionieri di quello che è diventato un vero e proprio movimento.
Oggi questi cori in Olanda sono qualcosa più di 500 e ciascuno conta tra 20 e 60 membri. Ciò significa che ci sono più di 16 000 persone che eseguono regolarmente canti marinareschi. Lo stesso dicasi per la Germania, dove i cori sono ancora più numerosi. Ce n’è una manciata anche in paesi vicini come la Polonia, la Norvegia, il Belgio e perfino in Svizzera, che pure non ha sbocchi sul mare.
Di fronte a questi numeri, c’era da immaginarsi l’esistenza di una quantità incredibile di persone dedita ai canti marinareschi e altri canti del mare nelle pianure dell’Europa del nord, e mi ci sono voluti due mesi per scoprire il perché.
Fin dall’inizio la spiegazione sembrava essere che alla gente piace divertirsi. I partecipanti, solidi musicisti dilettanti, non erano marinai incalliti né gente che si accompagna durante il lavoro in mare, bensì persone dai modi gentili di mezza età, dai 40 ai 70 anni.
Di giorno lavoravano come venditori di componentistica per l’industria o come insegnanti. Uno era un dirigente d’azienda che magari doveva volare a Tokyo il martedì mattino e tornare per esercitarsi giovedì sera. Un altro era il capitano della propria chiatta da carico, che ha smesso perché non poteva competere con le nuove chiatte più grandi. Ora lavora con i bambini handicappati. Un buon numero sono in pensione o disoccupati. Ma anche se alcuni erano al volante di Bmw e altri in bicicletta, cantavano tutti insieme. Se vi capita di entrare nella sala durante un’esecuzione commovente di un vecchio canto di mare, la prima cosa che notate è il senso di unità, forza e convivialità.
Questo gruppo sapeva come divertirsi. In qualche caso gli uomini avevano bisogno di staccare la spina dopo lunghe settimane di lavoro, e i fine settimana trascorsi nelle feste in Germania – le cinque o sei volte l’anno in cui si svolgono – davano loro la possibilità di scaricare un po’ di pressione. Per chi è in pensione o disoccupato, cantare in un gruppo diventa una buona occasione per stare con gli amici. Ad altri ancora offre la possibilità di fare musica in modi che non richiedono grande talento o tecnica, né sono soffocati dalle rigide dottrine sociali e religiose della chiesa cattolica, di quella olandese riformata, di quella calvinista.



Musica e lavoro
Eccoci, dunque, al festival marino di Vegesack, sobborgo di Brema, Germania. Siamo saliti sull’autobus noleggiato alle 8, le fisarmoniche sono spuntate alle 8,45 e i canti non sono cessati finché siamo arrivati in Germania, buttando giù pesce crudo, alle 16. Sull’autobus c’era un altro coro, De Caapstanders, che contava sia uomini sia donne, e la presenza di compatrioti con cui cantare ha scatenato l’eccitazione di entrambi i gruppi. Tre fisarmoniche pompavano musica su musica e tra melodie, vino e birra (spuntati dal cassetto del cruscotto e venduti dall’autista) il tempo è volato. Tutti affollavano il passaggio facendo avanti e indietro, salutando vecchi amici e unendosi ai cori. In certi momenti cantava tutto l’autobus, coprendo con vecchi, classici canti marinareschi il rumore dei pneumatici e del motore.
Sull’autobus ho sentito per la prima volta op de haaring. Questo canto è il favorito di molti membri di De Boekaniers per come si sposa al loro modo di mangiare aringhe. Piace anche perché è una canzone bella e suggestiva sul lavoro di tirare a bordo reti cariche di sguscianti, argentei pesci lunghi 15 centimetri. La melodia comprende un verso gioviale e trascinante che tutti sembrano conoscere e cantano all’unisono, e quindi un coro che sfocia in dense armonie, con una consistente sezione di basso che prolunga il finale e i tenori a fare da contrappunto alto. «Tira su le reti, tira su le reti, l’argento dal mare». Ogni cantante si allunga e alla parola op drizza il torso e le braccia come se stesse tirando su una rete piena di pesce.
Questa scena coglie l’essenza della musica che accompagna il lavoro in Olanda e in Germania nel XXI secolo. È cantata in modo ricreativo, per ricordare un’era in cui gli uomini cantavano e lavoravano a bordo di velieri e pescherecci. La musica in sé non ha nessun ruolo nel luogo di lavoro moderno, ma solo in quanto è di sollievo dopo una giornata di lavoro. Altre canzoni che non sono legate specificamente al lavoro sulle navi, come quelle sul mare e la vita a bordo, fanno parte del repertorio.
Che i canti siano o meno musica legata al lavoro, i De Boekaniers si lanciano in cori eccitanti senza indugio. Viaggiare e cantare con il gruppo, in specie nei festival musicali nei fine settimana, mi è sembrata una combinazione tra un incontro di una famiglia numerosissima, una grande festa in costume e una vacanza di studenti che si sono persi sulla strada per Ibiza e si ritrovano in una base militare.

Lutzow Kaserne
Intanto, il festival marino tedesco è ospitato in una caserma dell’esercito a Lutzow Kaserne, una grande base militare lì vicino. Mentre l’autobus varcava il cancello, un gruppo di soldati ci ha salutato con stile e poi è salito a bordo per controllare i nostri passaporti. I soldati erano tesi e sospettosi nei confronti dei passeggeri, ma il livello di giovialità sull’autobus era tale che la gente cercava apertamente di sciogliere il loro gelido sguardo. Un signore con una barbetta a punta e un buffo cappello ha afferrato il mio passaporto e mi ha dato il suo. Quando è arrivato il soldato per il controllo, ha guardato i passaporti, poi noi due, poi ancora i passaporti… e ha fatto una smorfia. La tensione era svanita.
Quando sono scesi dall’autobus, i soldati scherzavano con tutti, dando all’evento l’aura di una riunione familiare. Anche se non hanno condiviso le nostre aringhe, si sono adeguati agli scherzi e hanno ascoltato le storie che sgorgavano dalla bocca dei musicisti eccitati.
Quel fine settimana, poi, sembrava una gigantesca festa in costume perché tutti i membri di entrambi i cori erano vestiti con una congerie di vecchi abiti rustici: camicie a righe, bandane, cappelli di lana da pescatore e pantaloni larghi e sformati. Alcuni avevano orecchini d’oro a cerchio, altri fasce di sisal legate intorno al petto come fusciacche. Giravamo nella zona del festival in bande e quando trovavamo un’altra banda seduta al tavolo di un caffè ci sedevamo invocando stuzzichini a sbafo.
Viaggiare con De Boekaniers è stata una vera e propria boccata d’aria fresca, perché tutte le regole sembravano accantonate. Eravamo lontani dall’Olanda e la severità dei tedeschi pareva rendere ancora più sfrenati i membri del coro. A mezzanotte, tornato dalla prima serata di spettacolo, ero esausto e stavo per accasciarmi sul letto quando uno di loro ha sussurrato: «Bennett, prendi il violino, andiamo a intrufolarci nella caserma delle donne!»
E così abbiamo suonato fino alle tre del mattino, buttando giù altre aringhe, birra e pane. Siamo tornati nei nostri letti con lo sguardo annebbiato, cantando bellicosamente canti marinareschi nell’aria frizzante mentre passavamo accanto ad autorimesse piene di carri armati e autoblindo tedesche. Avevamo trionfato sull’ordine militare con i nostri cori suggestivi e il pesce sotto sale: non si vedeva un solo ufficiale tedesco e la notte era stata dedicata alla convivialità del cibo e della musica condivisi.
Bennett Konesni

Etichette: ,