Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

5/30/2007

Di Carlin nel comitato di saggi del PD e di altre storie…

È una questione di povertà intellettuale. O di meschinità figlia di una grettezza incolpevole. Se uno non ci arriva, mica gli si può sparare. Se ne prende atto. I commenti di questi giorni sull’inclusione di Carlo Petrini, nell’ormai “famigerata” lista dei 48 (propedeutica alla nascita del partito nuovo-nuovo), pescano talmente a piene mani dalla bisunta saccoccia dei luoghi comuni, che quasi deludono. Ci deludono. Non solo manca lo sforzo cognitivo di capire, ma perfino una briciola di sforzo nell’obbiettare: dal catering al lardo di Colonnata, perfino gli esempi sono dozzinali. Francamente, ci aspettavamo di più.
Si tratta pur sempre di valide penne, di cui spesso ci fidiamo quando leggiamo d’altro. O di altrettanto validi esponenti politici, di cui ci fidavamo a tal punto da dar loro il voto. E questo “noi” è un pubblico indistinto – una trentina di migliaia di associati a Slow Food, in Italia – che ripone nella gastronomia una buona dose di plusvalori. Noti perfino a chi ha sciorinato le banalità di cui sopra. Ma tant’è. Capitombolato dal mondo alto e nobile della scienza gastronomica o dei saperi contadini che dir si voglia, nobili altrettanto se non di più, Petrini s’è trovato per la prima volta invischiato nell’inchiostro riottoso dei commentatori di professione (professione: partito preso) e negli starnazzi che garantiscono la prima pagina, e dunque finalmente luce per chi è nell'ombra. E la politica all’ombra non campa, si sa.

Insomma, noi qui non si vuole entrare nel merito. Ché qui di merito ce n’è ben poco, e quel poco che c’è se lo merita Vissani. Uno chef catodico. Che perlomeno ha centrato le categorie di appartenenza del personaggio, che col lardo in senso stretto hanno poco a che fare. Vissani ha parlato di Ministero dell’Agricoltura e della questione OGM. Ecco, Petrini sta in quel mondo lì: quello dove gli OGM sono un problema mondiale e il ministero dell’Agricoltura è più importante di quello dell’economia. Che poi Vissani l’abbia collocato dalla parte sbagliata è un errore umano che perdoniamo all’unico commentatore che almeno ha azzeccato il mondo giusto.
Certo, il fatto che ci sia arrivato Vissani non depone a favore di quelli che non ci sono arrivati. Fossimo in Pansa, cominceremmo a preoccuparci.
Alessandro Monchiero

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5/25/2007

È uscito oggi Slowfood 27

Ecco la storia di copertina (foto Alberto Peroli), che raffigura Gino e Andrea Bardone.

Sono diciassette le edizioni di Osterie d’Italia e da altrettanti anni quando si finisce sulla pagina di San Marzano Oliveto ci s’imbatte nella trattoria Del Belbo da Bardon: in genere ci arrovelliamo con arguzie letterarie per cambiare un po’ l’incipit della scheda, ma poi siamo costretti a proseguire raccontando sempre gli stessi piatti, le stesse atmosfere, gli stessi personaggi: se non è un record poco ci manca. Già, perché molte osterie con le quali avevamo iniziato l’avventura della guida hanno presto o tardi spiccato il volo: aggiunto sottopiatti e diminuito le porzioni dei soprapiatti, sofisticato le presentazioni, internazionalizzato le proposte, arricchito le apparecchiature e, dulcis in fundo, ritoccato i prezzi. Dal 1891, invece, da quando Gioachino Bardone aprì il locale, il Bardon rimane orgogliosamente un’osteria, che propone una solida e saporita cucina imperniata su ravioli quadri, agnolotti dal plin, gnocchi, tajarin, pasta e fagioli, bolliti, galletti, conigli, stinchi, costine e via continuando, all’insegna di ruspante piemontesità.
Oggi officia Gino (a sinistra nella foto, con il fratello più giovane, Andrea), figlio di Anna e Giuseppino, che da sempre coltiva tre passioni: la Juve, la bicicletta e il vino.
«Gente così merita la copertina», ci siamo detti. Ed eccola qui, ad anticiparvi il racconto che Gioavanni Ruffa dedica ai Bardon, a pag. 64 della rivista. (Alessandro Monchiero)

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5/22/2007

Sowmusic

E dopo i libri… un po’ di recensioni musicali tratte da Slowfood 26…

Capita raramente che da un grande libro si possa trarre un film altrettanto bello. Capita quasi mai che un libro straordinario dia vita a un film commovente corredato di una colonna sonora disperatamente perfetta. Nel “quasi mai” rientra il film indipendente di Liev Schreiber, dal romanzo Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer. A sintetizzare sommariamente l’opera di Foer possono servire alcune parole: memoria, yiddishland perduta, radici, amori antichi. Quando ho visto l’adattamento cinematografico, nella mia mente è scattato un click. Immagini e suoni erano esattamente quelli che avevo “visto e sentito” leggendo il romanzo. Elijah Wood era Jonathan, Eugene Hutz era Alex, la musica di Paul Cantelon, dei Leningrad, dei Gogol Bordello, del Tin Hat Trio era quella che “risuonava” tra le pagine di Foer. La soundtrack, principalmente opera del compositore statunitense Paul Cantelion, infarcisce di pura poesia il film. “Odessa Medley” e “Sunflowers”, su tutte, sono il completamento sonoro delle emozioni che la parola scritta e la trasposizione video hanno prodotto nella lettrice, spettatrice ascoltatrice. I Gogol Bordello, band capitanata da Eugene Nicolaev Hutz, gitano dell’est trapiantato negli Usa, sono autori di tracce vigorose. Attore nella pellicola (interpreta Alex, la guida ucraina dall’improbabile inglese che accompagna Jonathan alla ricerca di Trachimbrod, villaggio natale del nonno), Hutz ha creato uno stile gipsy-punk che va forte nella Grande Mela, dove si è trasferito dall’Ucraina e dove per qualche anno è si è guadagnato la pagnotta suonando alle feste degli immigrati ex sovietici. Seguono alcune chicche di soviet-rock targato Leningrad, band di 14 elementi proveniente da San Pietroburgo e, al mio orecchio, una versione più sobria dei Pogues. E infine, “Fear of the south”, sublime distillato armonico del Tin Hat Trio, ensemble acustico di San Francisco. Un consiglio poco ortodosso: potete sentire questo cd anche se non avete visto il film e letto il libro. Potete magari fare il percorso inverso: ascolto cd, visione film, lettura libro. O potete decidere l’ordine. Comunque scegliate, non ve ne pentirete. (Alessandra Abbona)

Everything is illuminated – Original Motion Picture Soundtrack
TVT Soundtrax, 2005

È cresciuto nella campagna della Nova Scotia, in Canada, ha sfiorato il professionismo nel baseball (una delle sue fonti d’ispirazione), non fa uso di medicinali, non beve alcol, non beve caffè e non fuma; nonostante questo ultimo dettaglio, la sua voce è stata paragonata a più riprese a quella di Tom Waits, ma lui guarda ancora più indietro e dice di rifarsi prima di tutto a Captain Beefheart. Che è un musicista s’è capito ma, dopo tale descrizione, arrivare a intuire che fa rap è quasi impossibile. La voce di Richard Terfry, in arte Buck 65, si è deteriorata a forza di concerti, ma il suo essere roca la rende originale, seducente, più che mai adatta a dipingere in rima i paesaggi umani descritti ad arte dal musicista canadese. Un artista che ha dichiarato: «Faccio musica per tentare di rendere me stesso e altre persone felici e/o tristi; non per fare soldi». Un’affermazione potenzialmente soggetta a forti critiche, se si pensa che Buck è sotto contratto con una major, la Warner. Nel 2006 però per la Warner ha pubblicato giusto un 10’’ in vinile stampato in 1000 copie mentre, sempre a suo nome, sono usciti sia un mixtape sia un ep con brani inediti scaricabili gratuitamente. L’ep s’intitola Dirty Work, è uscito a fine 2006 e conferma la sua vena di rapper-cantautore: si parte con i beat digitali che si fondono a un banjo e sembra di avere a che fare col manifesto del country rap, poi con “Death Of Me” ecco una sorta di reading d’atmosfera; “Heather Nights”, brano in cui la chitarra si fa sentire, lascia infine il passo a una title track dal suono (logicamente) sporco. Buck rievoca ambienti suggestivi, dall’aria cinematografica, e si conferma un artista con le idee chiare rispetto ai rapporti da mantenere col mercato discografico; la sua condotta sarà opinabile quanto quella di mille altri artisti ma, quanto meno, lui conserva quella libertà necessaria a chi non vuole dimenticarsi del suo pubblico; lo si evince anche guardando come cura il sito www.buck65.com. (Luca Gricinella)

Buck 65
Dirty Work ep
Autoproduzione, 2006

Chi cresce in provincia e ha ambizioni artistiche spesso vive un conflitto con il luogo d’appartenenza. Non pare proprio il caso dei Giardini di Mirò, post-rock band di Cavriago (Reggio Emilia), fin dagli esordi strettamente legata a storia, cultura e paesaggi della zona in cui è cresciuta. Si potrebbe obiettare che lo stile musicale e la scelta dell’inglese non vanno in questo senso. Invece è proprio qui che i Giardini di Mirò sono riusciti: la loro musica – pur richiamando suoni che in Italia storicamente pochi hanno prodotto (al contrario del Nord America, ad esempio) – li rappresenta appieno, in tutto. Dividing Opinions è il loro terzo album e in copertina ci trovi i «ragazzi dalle magliette a righe», in particolare quelli di Reggio Emilia: il 7 Luglio 1960, per manifestare il loro dissenso allo stato delle cose, cinque operai restano a terra esanimi sotto gli spari della polizia del ministro Scelba; la piazza dove avvenne il fattaccio allora era intitolata a Cavour, oggi ai Martiri del 7 Luglio. I nove brani del disco struggono di romanticismo; civile, precisano loro, perché si tratta di «una sorta di sentimento di partecipazione emotiva» dice Corrado Nuccini, membro fondatore della band. Insomma, canzoni d’amore che non si esimono dall’impegno. Canzoni, inoltre, che aprono a paesaggi brumosi, oscuri, ma che infondono una sensazione liberatoria. Anche nelle suggestioni sonore poi gioca un ruolo importante, ma in un’altra veste, quella memoria reclamata dalla copertina: come se l’ascoltatore fosse invitato a viaggiare nella propria. E iniziano a scorrere immagini, anche intime; più che mai nei climax strumentali. (Luca Gricinella)

Giardini di Mirò
Dividing Opinione
Homesleep Music, 2007

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5/16/2007

Slowbooks

Un po’ di recensioni tratte da Slowfood 26…

«Impossibile non avere almeno un vizio. Diluirlo nei sapori potrebbe essere un’idea». Ci introduce così, senza altri commenti né avvertenze, al suo ricettario Nella Zanotti, giornalista e fotografa milanese. Nessun trendy chef, dunque, nessun piatto patinato, nessuna fotografia che ti smonta ancor prima di cominciare (non mi verrà mai così). Un’idea, invece, un filo conduttore divertente per declinare 131 ricette: i sette vizi capitali, ovvero come ira e superbia possano trasformare un petto a dadini in uno “sdegno di pollo al finocchio” o in un “tronfio pollo al peperone”, e i biscotti passare da parsimoniosi a cupidi a seconda che il cuoco indulga all’avarizia o all’avidità. Il giochino invita a sfogliare, con un occhio alle illustrazioni di Jean Blanchaert, a comporre menù strampalati con gelosie di tagliolini, zucchine ribelli e cavolfiori stizziti, pesci sulle spine, cioccolate fiacche.
Cadono in tentazione, senza grandi sensi di colpa, e ammettono la loro dissolutezza i sette scrittori (alcuni prestati alla poesia, al teatro, alla stampa) autori delle introduzioni a ogni vizio. Chi scomoda Dante e Aristotele per nobilitare la sua accidia, chi l’avarizia la chiama sobrietà, «orgoglioso desiderio di autosufficienza e rapporto diretto con la natura» (ma, al figlio, mamma Ottieri preparava a merenda pane raffermo condito con olio, sale, pepe e aceto!). Chi cede alle lusinghe di un vizio della gola molto furbo, capace di far trepidare Vivian Lamarque perfino per gli avanzi di semolino e cremine di riso dei nipotini, e chi descrive senza pietà le tribolazioni degli invidiosi, vittime di una pratica culinaria tremenda che prevede un «bagnomaria in quella sofferenza bruciante che denuncia al cielo la propria inferiorità», perché, sentenzia tristemente Patrizia Zappa Mulas: «L’invidia non si cucina, se ne viene cucinati». L’alfabeto condanna la superbia a chiudere Tutto il male vien per cuocere con uno scritto di Barbara Alberti che narra di acqua avvelenata. Peccato solo per i cucchiaini di estratto per brodo e i dadi vegetali che fanno a volte capolino fra gli ingredienti: vizietti… (Simona Luparia)

Nella Zanotti
Tutto il male vien per cuocere
Nottetempo, 2006

La cucina valdese di Gabriella Pizzardi e Walter Eynard nasce da due esperienze straordinarie. Quella di Madame Madeleine Muston Jahier e del suo ricettario del 1809, custodito nell’Archivio della società degli studi valdesi di Torre Pellice e quella del sommelier e del cuoco del ristorante Flipot, compagni di vita e di lavoro.
Un ricettario, ma anche una porta per entrare nel mondo della cucina e della cultura valdese. Ricette, ma soprattutto tradizioni. Dalla battitura del grano saraceno o granèt poi pulito con il vantouar alla preparazione del paneddo, zuppa destinata alle puerpere, dove si aggiungeva un po’ di noce moscata, perché, si diceva, fa venire il latte. Ma anche la preparazione dei tourchèt delle grandi feste, o l’insaccatura della mustardela, salame tipico delle valli, costituita dal sangue e dalle parti meno nobili del maiale arricchiti da porri, cipolle e spezie.
Non mancano naturalmente le ricette dei piatti più tipici della cultura valdese tra cui la supa barbetta che prende il nome dall’usanza di chiamare i loro predicatori zii (barba) e non padri, come i cattolici, poiché tale titolo di Padre spettava solo a Dio. È il piatto più rappresentativo delle valli ed era destinato ai giorni di festa e della macellazione del maiale. La prustinenga, invece, era il piatto tipico del banchetto nuziale. Quando due giovani decidevano di sposarsi, erano loro regalati capretti e agnelli, le cui carni sarebbero state vendute per comprare oggetti e mobili per la casa, mentre le interiora erano conservate e cucinate per il pranzo di nozze. Il ricettario si chiude con il rito del tè valdese. Importato direttamente dalle ragazze delle valli andate a servizio presso famiglie inglesi, polacche e russe. Dalle cinque del pomeriggio, orario di Londra, i valdesi spostarono l’appuntamento alle quattro, momento in cui anche gli uomini nei campi fermavano il lavoro e tutta la famiglia si ritrovava davanti al tè e alle tartine (rustie) ricoperte di burro, marmellata, zucchero o pasta d’acciughe. (Chiara Ugolini)

Gabriella Pizzardi e Walter Eynard
La cucina valdese
Claudiana Editrice, 2006

L’unica cosa che ci dispiace di Cuochi fatui è che sia nato come «idea buffa destinata agli amici e prodotta in 600 copie grazie alla collaborazione di un amico stampatore». E che la nostra sia una delle ultime copie rimaste, come ci scrive Pier Paolo Cornieti, l’autore delle ricette, creativo in quel di Bologna e già inventore del reggiseno in barattolo (le ragazze di vent’anni fa non possono non ricordare i vasetti della Primizia). Come dire: da una concezione di marmellata tutta particolare a idee stravaganti – e poco commestibili – di primi, secondi, spuntini e dessert. Non mettetevi dunque alla caccia di questa rarità per stupire i vostri convitati, cercatela piuttosto per divertirvi con le parole e soprattutto per scoprire quanto sono bravi alcuni illustratori italiani che regalano a piatti dai sapori dubbi e dalle preparazioni improbabili delle tavole splendide. Bau Scarabottolo, che odia lo slow food, disegna il suo pc con lo zip che fa i tost; Valeria Petrone, Libero Gozzini, Manuela Bertoli, Marco Ventura e Gabriella Giandelli scelgono i pesci: inquinati, stirati, funebri, trasformati in macchine da pop corn o infilzati su spiedi da elettrauto; Giulia Orecchia immagina tre piccioni dispettosi d’altri tempi prima che siano ripieni di riso…
Due vie traverse per arrivare a Cuochi fatui sono il sito www.luoghinoncomuni.com (alla voce progetti) e un recital che l’attore di teatro Giacomo Benelli sta portando in giro con successo. Grazie a lui, ricette pazze come le vongole all’ascella e l’oca alle cretine si godono, accompagnate da musiche e immagini, la loro seconda chance. (Simona Luparia)

Pier Paolo Cornieti
Cuochi fatui

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5/08/2007

Slowballoons: è il tempo delle celebrazioni

Fin dall’inizio, la rivista Slowfood ha puntato molto sull’illustrazione e sul fumetto, rivolgendosi ad autori noti e scovando fra i vicini di casa altri che lo sarebbero diventati. Abbiamo portato fortuna più o meno a tutti, e ne siamo orgogliosi. Abbiamo iniziato con l’ultima tavola affidata a Silver e al suo Cattivik, e poi siamo passati a Marco Corona, a Ponchione, a Squaz, a Bacilieri, a Gianluca Costantini, e via disegnando… Ora che Marco Cazzato è diventato autore fisso de La Stampa, che Squaz imperversa in lungo e in largo su Rolling Stone, che Marco Corona raccoglie premi a piene mani in quel di Napoli e che i suoi fumetti per la Coconino vanno a ruba… beh, ora, ci piace farci i complimenti per quanto siamo stati lungimiranti, e farli soprattutto a questi artisti che ci hanno regalato tavole meravigliose, che meglio di una foto hanno raccontato i nostri temi, illustrato i nostri racconti, sposato la nostra filosofia di biodiversità.
Eccoli qui, dunque, i nostri (e non solo nostri) artisti, in una rapida carrellata celebrativa. Trovate comunque tutti i loro lavori pubblicati nel colonnino di sinistra di questo blog, alla voce Slowballoons

Marco Cazzato


Daniela Villa


Gianluca Costantini


Paper Resistance


Marco Corona


Piero Lusso


Serena de Gier


Squaz


Paolo Bacilieri


Sergio Ponchione


Palumbo


Silver


Mario Addis


Marco Bailone


Nicoz



Fedo (Alfredo Dellavalle)


Cinzia Ghigliano

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5/07/2007

I volti di Terra Madre in mostra a Pinerolo

E' stata inaugurata ieri a Pinerolo la mostra I ritratti di Terra Madre, cento volti di contadini, allevatori, pescatori e cuochi che rappresentano la rete mondiale delle comunità del cibo incontratasi a Torino nell’ottobre del 2004 e del 2006. La mostra, realizzata dalla Pro Pinerolo in collaborazione con Slow Food nell’ambito di Sapori Divini, resterà aperta fino al 20 maggio. Nella sala al piano terra del Palazzo dei Cavalieri sono esposte più di 100 immagini realizzate durante l’ultima edizione di Terra Madre (Torino, 26 - 30 Ottobre 2006) dal fotografo albese Gianluca Canè, che ha messo a disposizione i suoi scatti per presentare al pubblico i protagonisti di questo evento.











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5/04/2007

E ricordatevi che in questi giorni c'è…



Per saperne di più:
Il sito ufficiale di Slow Fish
Lo speciale sul sito di Slow Food

Alcuni articoli "acquatici" pubblicati su Slowfood 26:
Un mare di opinioni
Tonno da morire
Mazara a picco
Les pucelles d'Orléans
Soltanto con rete a tramaglio
Problematiche emergenti
Intervista a Claudio Burlando

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Campioni del mondo, cap. 4

L'intervista a Eberhard Spangenberg di Luca Angelini, pubblicata su Slowfood 26.



Eberhard Spangenberg è da più di 25 anni importatore di vino in Germania. La sua azienda, Garibaldi, oggi ha cinque negozi a Monaco di Baviera e uno a Friburgo, nel Baden, che riforniscono vari settori della gastronomia e i rivenditori specializzati, ma non solo. Da qualche anno ha aperto anche un wine bar a Monaco. Garibaldi non organizza solo degustazioni e seminari sul vino, ma pure viaggi che uniscono vino e cultura, serate di lettura con diversi autori, programmi cinematografici, concerti di jazz in collaborazione con l’etichetta Ecm, visite guidate a musei e, nel Garibaldibar a Monaco, mostre di artisti di rango internazionale, in collaborazione con un’importante galleria. Spangenberg, insomma, ha più di qualche titolo per parlare delle prospettive del vino italiano in Germania.

Per prima cosa, come sta cambiando il mercato del vino in Germania?
Il prezzo medio – non il prezzo minimo! – di tutte le bottiglie di vino vendute in Germania è, negli ultimi due anni, slittato sotto i 2 euro. Più di due anni fa erano 2,13 euro. Solo il 4% di 82 milioni di tedeschi spende più di 5 euro per una bottiglia. Il 50% delle bottiglie di vino vendute in Germania sono distribuite dai discount e ai rivenditori qualificati, come Garibaldi, rimane solo il 3,7% del mercato. Il resto è venduto da negozi alimentari al dettaglio, grandi magazzini, caffè, distributori di benzina e, da qualche tempo, pure dai parrucchieri, che espongono bottiglie di vino tra i flaconi di shampoo.

E il vino italiano come si colloca in questo panorama?
La gastronomia italiana e la cucina mediterranea hanno cominciato a conquistare il mercato in Germania a partire dagli anni Cinquanta, con l’emigrazione Oltralpe. Gli spaghetti e la pizza furono novità assolute per i tedeschi. Il modo di vivere allegro e spensierato degli italiani, in particolare quelli del sud, che hanno fondato e sostenuto la vostra gastronomia in Germania, e l’infinito amore dei tedeschi per loro, hanno determinato il successo della vostra gastronomia e del vostro vino. Quello fu il periodo in cui i tedeschi impararono, ad esempio, a conoscere e amare il Valpolicella, un periodo in cui esso, bisogna dirlo, era ancora percepito come prodotto di massa. Fino agli anni Novanta, la carta dei vini nei ristoranti italiani a Monaco era bene o male sempre la stessa. Si basava essenzialmente sui vini aperti da grandi damigiane, i quali – se non erano chiamati solo “vino della casa” o “vino della casa rosso”, senza indicazioni su regione di provenienza, produttore e annata – si chiamavano, per i bianchi, Soave, Trebbiano, Vernaccia di San Gimignano, Pinot Grigio e, più tardi, Chardonnay e per i rossi Chianti, Bardolino, Valpolicella e Montepulciano. Vino frizzante (più tardi chiamato Prosecco) e Spumante non avevano altre indicazioni. Furono in gran parte giovani imprenditori e importatori tedeschi a determinare la svolta qualitativa e la costituzione di un mercato del vino orientato alla qualità. In Germania, oggi, la gastronomia tricolore ha fatto un passo in avanti – anche per la pressione dei clienti – e c’è una nuova generazione di giovani italiani che non sono solo capaci di fare pizze o servire vino dai bottiglioni. La cucina del Bel Paese in Germania si esprime non di rado in maniera splendida. Si potrebbe quasi dire che a Monaco si possa mangiare italiano meglio che in alcune città d’Italia. Eppure, anche a Monaco molti ristoranti italiani devono chiudere. I ristoranti mediocri non hanno modo di sopravvivere. Quelli che rimangono e hanno successo appartengono a tre categorie: le pizzerie o trattorie a gestione familiare, con un tocco molto personale, il classico “italiano vicino casa”; alcune gestioni il cui unico argomento sono i prezzi bassi, ma anche in questo caso, solo se la location, l’ambiente e il servizio funzionano; i locali che hanno una cucina raffinata, una buona carta dei vini e che a volte si contendono le stelle Michelin. I ristoratori che non stanno al passo devono chiudere. E sono appunto coloro a cui manca la preparazione o la sensibilità per capire che il Valpolicella non è più un vino da servire dai bottiglioni. Al posto di questi locali mediocri aprono fast food, coffeshop e ristoranti più o meno semplici con cucina asiatica. Gli asiatici, oggi, stanno conquistando il territorio gastronomico tedesco un po’ come negli anni Sessanta e Settanta avete fatto voi.

Se chiudono i ristoranti, anche il vino italiano è destinato in Germania al declino?
Credo ci siano sette tendenze che determineranno il futuro della gastronomia tedesca e che toccano da vicino la questione del vino.
Sempre più gestori della gastronomia di alto livello optano per l’offerta di vini pregiati in bicchieri da un decilitro. Si tratta, senza dubbio, di un’ottima chance per questi prodotti e la mia azienda sostiene questa tendenza con seminari sul marketing, sul servizio e la cura del vino, eccetera. Il motto è: meno, ma più buono.
I camerieri e i sommelier sono sempre più preparati e professionali. Solo a Monaco esistono tre cosiddette università del vino, la Volkshochschule (sovvenzionata dai Comuni) che offre numerosi corsi di degustazione e di cultura enologica, le attività promosse da Slow Food Deutschland e Ais, così come una serie di iniziative e seminari organizzati dagli stessi distributori. Se volete vendere vino, è questa nuova generazione che dovete in primo luogo raggiungere.
La proposta enologica nei locali di recente inaugurazione, con l’eccezione del tipico “italiano”, a differenza di 10 anni fa, è orientata oggi in maniera globale. A nessuna nazione è data la precedenza. L’Italia, che nei decenni passati si era imposta per agilità e coraggio imprenditoriale, oggi, se vuole la pole-position, se la deve conquistare.
La giovane gastronomia calcola i prezzi del vino in maniera diversa rispetto al passato, ossia, non più con una percentuale uguale per tutti i vini. Ciò offre possibilità tutte nuove per quelli appartenenti al medio e alto segmento di prezzo.
I vini del segmento di prezzo alto hanno sempre meno peso nella gastronomia, giacché i clienti li bevono volentieri a casa, comprandoli a prezzi più moderati. Quelli cari li vendiamo oggi soprattutto nelle nostre enoteche o con il mail-order. In gastronomia è scoccata l’ora dei vini di prezzo medio.
Il classico ristorante in cui si passa da portata a portata per ore e ore, sta per scomparire e si stanno sviluppando nuove forme di consumo del vino. Stanno nascendo nuovi tipi di ristoranti, tra i quali i wine bar. Io vendo, ad esempio, nel bar più famoso di Monaco, molto Amarone in mezze bottiglie, cosa impensabile fino a 10 anni fa.
La classica carta dei vini, strutturata per paese, regione e tipi di vino è sempre meno attuale. A Monaco c’è, ad esempio, un locale da 300 posti gestito da uno dei gastronomi tedeschi di maggior successo, a poco più di 50 metri dall’Opera, in pieno centro. Lì sono offerti 10 vini aperti e altri 20 sulla carta. Non di più. Ma questi vini sono stati selezionati con estrema cura. La carta dei vini non è strutturata secondo paesi o regioni, ma come segue. Il “valore aggiunto” in questo caso conta sull’emozione, il momento e la situazione, in cui un vino viene ordinato:

Bianchi:
1) Secco, fresco, facilmente accessibile
2) Stimolante, elegante struttura di frutta, aromatico
3) Gusto pieno, forte, intenso
4) I nostri grandi: cru e vini famosi

Ciò che sprizza e spumeggia

Rossi:
1) Leggero, invitante, secco
2) Speziato, stimolante, raffinato
3) Vellutato, concentrato, fruttato
4) I nostri grandi: cru e vini famosi

La dolce vita: come vino da dessert oppure con il dolce

Uno dei vini italiani su cui lei scommette di più è il Valpolicella. Come mai?
Ho parlato di recente con Hermann Pilz, capo-redattore di Weinwirtschaft, la principale rivista per addetti ai lavori, paragonabile in Italia al Corriere vinicolo. Pilz prevede prospettive rosee per il Valpolicella in Germania. Secondo Pilz, possiede una buona immagine e, data la zona di produzione relativamente contenuta, la sua qualità e il suo prezzo, non è quasi per nulla smerciato dai discount, con l’eccezione di alcune promozioni di Amarone, fatte sulla scorta di vini di dubbiosa origine. Il Valpolicella è distribuito attraverso il cosiddetto mail-order, da rivenditori specializzati, negozi di alimentari qualificati e grandi magazzini di alto livello. Il Valpolicella, sostiene Pilz, è conosciuto come un vino buono e speciale che si differenzia chiaramente dai vini meridionali, che si distinguono per pienezza e semplicità. Aggiungo che Valpolicella non è un termine coniato dai sacerdoti del marketing, ma ha una lunga storia, più lunga di tanti altri vini italiani e ha nel paesaggio intorno a Verona, nell’Arena e nel lago di Garda un sostanzioso e stabile sfondo, che significa, tra l’altro, uno speciale potenziale turistico. Il Valpolicella è radicato tra i vini veronesi e del Garda. Questo significa, per la sua presentazione e il suo commercio, un enorme effetto sinergico, che altri devono ancora con fatica costruirsi. Questo si rende ben visibile anche nei costi del trasporto. I produttori di Valpolicella appartengono poi a una differenziata struttura sociale: ce ne sono di grandi, di piccoli, di estrazione borghese o contadina, privati e individuali o legati a compagnie organizzate. Questa varietà significa forza. Ci sono grandi personalità individuali che svolgono una funzione da leader e i leader sono fondamentali per ogni regione vinicola. La loro fama mondiale non ha solo effetti positivi per loro, ma per l’intera regione in cui operano. Anche se i loro prezzi sono spesso al di là della realtà degli altri produttori (come Gaja in Piemonte) sono l’avanguardia che porta ricchezza a tutta la regione. Meritano il massimo rispetto e mai invidia. E negli anni il Valpolicella ha sviluppato, come nessun’altra regione del mondo, una serie di differenti livelli di lavorazione dello stesso tipo di uva: vino fresco, Ripasso, Amarone e Recioto rappresentano una varietà d’offerta che nessun esperto di marketing potrebbe immaginarsi e realizzare. A questo si accompagna una diversificazione dei prezzi, che non ho mai visto per nessun altro vino del mondo. A Garibaldi, tra un totale di 350 vini italiani abbiamo 19 vini veronesi, di cui 9 Valpolicella. Il più economico lo compro per 2 euro e lo rivendo ai clienti a 6,50 euro, Iva compresa – la gastronomia e i rivenditori specializzati hanno naturalmente prezzi più bassi. Il nostro prodotto di punta costa invece più di 100 euro e lo rivendiamo a 269 euro. Questa diversificazione dei prezzi è, dal punto di vista del mercato, una ricchezza incredibile, che non ci pare di avere visto da nessun’altra parte in Italia. Consiglierei ai produttori del Valpolicella una seria politica di informazione per i conoscitori che vogliono specializzarsi, sulle diversità dei prodotti, la doc, le singole peculiarità, ad esempio gli inimitabili lieviti dell’Amarone. Serve poi una stretta collaborazione con la gastronomia locale, che deve migliorare continuamente e svilupparsi, ma anche con gli operatori internazionali, che sono gli ambasciatori della Valpolicella nel mondo. Vanno sviluppate strategie per il consumo anche con altre tradizioni culinarie, come quella asiatica, e anche al di là della combinazione con il cibo. Vino da bere davanti il camino, al bar, eccetera. Ma la qualità nella bottiglia rimane il fattore principale.

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Campioni del mondo, cap. 3

Intervista a Joe Bastianich di Tiziano Gaia e Giancarlo Gariglio, pubblicata su Slowfood 26.

Il suo nome è Bastianich. Joe Bastianich. E da qualche anno più che un semplice nome è un brand, di quelli che incidono sulle scelte dei consumatori e possono condizionare il mercato, un certo mercato: nel caso nostro, quello del vino italiano e della gastronomia di qualità negli Usa. Su Google si leggono al suo riguardo biografie dai toni epici, di quelle che solitamente raccontano la vita dei decani, delle vecchie glorie. Peccato che Bastianich sia di un’annata giovane perfino per certi vini, il ’68, dunque neppure quarantenne, e che a vederlo ti dia l’aria easy del ragazzo americano capitato un po’ per caso lì dove lo incontriamo: ristorante Babbo, Waverly Place, Greenwich Village, Nyc. Il “ragazzo”, in realtà, di Babbo è l’ispiratore e il patron; di Babbo, e di altri 15 locali di grido aperti su svariati fusi orari americani. La storia del “nostro” (al secolo Joseph V. Bastianich, come nella migliore tradizione a stelle e strisce) inizia nella Grande Mela, ma affonda le radici da questa parte dell’oceano, in Istria, terra d’origine dei genitori, Lidia e Felice. Sono mamma e papà, negli anni Cinquanta, a sbarcare negli Usa, dando inizio a quella che diventerà nel giro di un trentennio una delle più acclamate dinasty gastronomiche degli States, artefice di una scalata ai vertici dell’eccellenza e del successo che ha pochi eguali anche in altri segmenti dell’economia statunitense. Nel 1971 i coniugi Bastianich aprono il loro primo ristorante nel Queens, il Buonavia. Il salto a Manhattan arriva 10 anni più tardi: è il 1981 quando in zona East River («il punto di Manhattan più vicino al Queens» come amano rimarcare) apre Felidia. È il momento della svolta: il locale si afferma subito come uno dei punti di ritrovo più apprezzati dai gourmet newyorkesi, il concetto di “fedele rivisitazione” della cucina italiana, accompagnata a una scelta di vini italici ben calibrata sul palato e sulle conoscenze degli habitués, ne decreta il trionfo.

Mr. Bastianich, Felidia ha dato inizio a un vero e proprio “fenomeno”. Qualcuno attribuisce a questo storico indirizzo addirittura un mutamento della percezione dei newyorkesi nei confronti della nostra cucina e dell nostro vino. Lei che ne pensa? E come ha vissuto quegli anni ruggenti?
Nei primi anni Ottanta si assiste in effetti a un mutamento della considerazione che gli americani hanno del vino italiano. Prima – parlo degli anni Cinquanta-Sessanta – c’era solo il Chianti venduto a fiaschetti nelle trattorie di Little Italy, poi – siamo negli anni Settanta – arrivano negli Usa i primi grandi nomi piemontesi, toscani, veneti: il pubblico comincia a familiarizzare con i grandi barolisti, i Conterno e Bartolo Mascarello, si emoziona per Giacosa e per i Barbaresco di Gaja, scopre il Brunello di Biondi Santi e per la prima volta assaggia un Amarone di Dal Forno. Negli anni in cui apre Felidia, la situazione muta ancora: la curiosità dei clienti spinge locali come il nostro a ricercare nuove etichette da promuovere sul mercato di New York, molto spesso un trampolino di lancio per gli altri Stati della costa o per quelli dell’interno. Il vino cambia pelle. La gente si affeziona alle etichette e vuole bere sempre meglio.

Eppure, gli anni d’oro devono ancora arrivare…
Vero. La fortuna del vino italiano negli Usa, in fondo, è recentissima: bisogna giungere agli anni Novanta perché non si possa più parlare di singoli produttori o singole tipologie, bensì di “sistema Italia”. Ma vorrei fare un passo indietro, tornare a quegli anni…

Prego. Anche perché siamo curiosi di sapere che cosa accadde subito dopo Felidia.
Felidia fu una sorta di sorpresa anche per noi. Io al tempo ero giovanissimo, non avevo idee chiare sul mio futuro e non ero certo che questo sarebbe diventato il mio mondo. Ma amavo l’Italia, un amore che mi era stato trasmesso dai mei genitori (Joe è il primo Bastianich nato in terra statunitense, nda) e che mi spingeva a trascorrere lunghi periodi nel vostro… nel nostro paese. Erano tour che includevano sempre la visita a cantine, osterie, punti di accoglienza e ristoro nelle regioni più disparate. Incontrando i produttori, ne incontravo le difficoltà a uscire da un mondo ancora molto provinciale, l’ansia di far conoscere un prodotto in molti casi eccezionale, la volontà di darsi gli strumenti per valorizzare al meglio il loro lavoro. Tornato a New York dopo il mio viaggio italiano più lungo…

… e mandata al macero una promettente carriera di broker alla Borsa di Wall Street…
Questo lo dicono le biografie, che per definizione mentono! Dunque, dicevo, tornato da questo viaggio mi misi a organizzare la cantina di Felidia alla luce delle conoscenze che avevo acquisito, ma non solo: decisi di fare il grande passo e aprire il mio primo ristorante.

Becco. Il celebre “pre fix”. Una rivoluzione.
Qui avete letto bene! Scherzi a parte… sì, quello fu uno shock per New York. Il concetto era semplice: io volevo che le gente bevesse, che i giovani americani si innamorassero del vino come io ero ne ero innamorato – avevo 23 anni, siamo nel 1991 – e perché questo accadesse potevo puntare soltanto su un prezzo che fosse il più possibile abbordabile. Avevamo 130 etichette. Molte di cantine italiane sconosciute all’epoca. Nessuna costava più di 15 dollari (poi siamo saliti fino a 20). Questo cambiò ancora una volta le carte in tavola sul modo di vedere il vino italiano in questa fetta di America.

Non dirà che è tutto merito suo…!
Certo che no! Infatti, come ho già detto, gli anni Novanta rappresentano di per sé una svolta epocale nel vino italiano. Anche le firme di media o piccola grandezza (sembra una contraddizione in termini, in effetti lo è) arrivano negli Usa coi loro prodotti, hanno i rappresentanti, propongono e vendono le loro bottiglie… Noi, al tempo, forse siamo stati bravi a intercettare da un lato la grande offerta che stava giungendo sul nostro mercato, dall’altro a orientare la domanda verso questo tipo di offerta. Tutto qui.

Be’, adesso non esageriamo. Siamo soltanto al primo ristorante. Ne mancano… una quindicina?
Sì, ma non è tanto il numero che interessa, e poi non stiamo parlando di me, ma del vino italiano negli Usa. Allora dico un’altra data cruciale: 1998. L’anno in cui apre Babbo. Il concetto si ribalta rispetto a Becco: qui vendiamo centinaia e centinaia di etichette italiane, alcune anche a prezzo molto elevato, abbinate a una cucina di altissimo livello, se così si può dire.

Si può, e se non lo fa lei lo facciamo noi: Babbo è stella Michelin, è una macchina da guerra che macina numeri impressionanti ed è la prima esperienza di partnership con il celebre chef Mario Batali. Crediamo possa bastare…
Può bastare!

Non ancora: le riviste americane, New York Times compreso, definiscono lei e Batali «coppia blockbuster»!
Ma questa è l’America! Oggi ci definiscono così, domani… Comunque il punto è: i clienti oggi sono curiosi, il vino italiano negli Usa tira moltissimo perchè rientra in quell’Italian style che affascina il consumatore.

Lei che cosa consiglia a una griffe affermata per non perdere posizioni, e che cosa a un piccolo vigneron emergente per farsi conoscere?
Alla prima dico di continuare a proporsi, di non stancarsi mai di battere il mercato americano in lungo e in largo, di non dare nulla per scontato, mai. Al secondo… le stesse identiche cose! Per me il succo della questione è tutto qui.

Ma ci tolga una curiosità: sono i buyers a cercare i produttori o viceversa?
Bella questione! Direi che entrambi si cercano, talora senza incontrarsi. Noi ogni anno acquistiamo 15 milioni di dollari di vino italiano per i nostri vari locali. Chi ci conosce, ci cerca e si propone. A noi fa piacere, spesso si tratta anche di belle realtà che poi al giudizio finale del cliente funzionano. Ma guai se noi smettessimo di cercare per conto nostro: io ho agenti che passano il loro tempo in Italia a scovare nuove aziende e a conoscere i vini. Direi che è quasi una questione di sopravvivenza.

Cambia, sta cambiando, è già cambiato il gusto negli Usa? Voi come vi ponete? Assecondate il cambiamento, o lo precedete?
Anche questo è un punto complesso: i gusti cambiano, certo, ma non poi così tanto. Vedete, il pubblico americano non è poi così schizofrenico: adora la cucina italiana – mi piace sempre partire da questo concetto – che qui negli Usa è piuttosto refrattaria a grossi sommovimenti concettuali, e di conseguenza continua ad amare in modo viscerale il vino che quella tradizione sa esprimere. Certo, oggi potranno andare un po’ meglio i vini eleganti, ieri quelli barricati, domani chissà, ma non è questo l’aspetto centrale: l’aspetto centrale è la straordinaria, e unica, diversità che l’enologia italiana sa trasmettere. Io li vedo, gli occhi dei nostri clienti nell’atto di scegliere un vino dalla carta: possono passare dai bianchi valdostani ai rossi siciliani, nella stessa sera, nello stesso locale, durante la stessa cena. Questo li entusiasma.

Per la cronaca, dopo l’incontro da Babbo il nostro tour è proseguito in altri tasselli della galassia Bastianich: Otto Enoteca Pizzeria, Casa Mono – deliziosa divagazione gastronomica in stile Spanish – fino a Del Posto, l’ultima invenzione della coppia blockbuster, fresca della doppia stella Michelin. In mezzo ci sarebbe molto altro: compresa un’enoteca a Downtown – Italian Wine Merchants –, un “gastropub” che introduce il concetto di qualità anche in una tipologia normalmente reietta su questo fronte, due best seller scritti insieme all’amico e general manager di Babbo, David Lynch – Vino Italiano e Vino Italiano Buying Guide –, una presenza fissa sulla Nbc e due cantine di proprietà in Friuli e Toscana.

Mania di grandezza, Mr. Bastianich?

Se di grandezza vogliamo parlare, è quella del vino italiano, semmai! Noi siamo soltanto compagni di strada del suo successo.

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Campioni del mondo, cap. 2

L'intervista di Nicola Perullo a Paul White, pubblicata su Slowfood 26.



Paul White, originario dell’Oregon, è neozelandese d’azione. Dopo lunghi soggiorni in Europa e in particolare a Londra, da oltre 14 anni si è trasferito in Nuova Zelanda, ed è uno dei winewriters più competenti e aggiornati sui vini del Nuovo Mondo ma anche sui vini italiani, che frequenta e apprezza da moltissimo tempo. «Ho conosciuto i vini italiani già in Oregon negli anni Settanta» ci dice «e poi in Inghilterra tra gli Ottanta e i Novanta». Scrive per molte testate, tra cui The Gourmet Traveller Wine. Lo abbiamo incontrato una mite mattina di febbraio a Pollenzo, appena di ritorno da un convegno sul vino in Valpolicella, e gli abbiamo fatto qualche domanda sui vini dell’Oceania e sulla percezione del vino italiano in quella realtà.

Facciamo il punto sulla situazione del vino neozelandese: quali sono le principali linee di tendenza?
Fino a vent’anni fa, i prodotti alimentari della Nuova Zelanda erano burro e agnello. Il nostro è un paese di forte tradizione agricola, e non manifatturiera, e questo ha inciso fino a poco tempo fa sulla mentalità della gente. Da un po’ di tempo, invece, i neozelandesi, come del resto gli australiani, hanno trovato un altro prodotto di cui vanno molto orgogliosi: il vino. L’orgoglio nasce dal fatto che possono finalmente esibire al mondo intero qualcosa di sofisticato e moderno che li rappresenta fortemente, essendo molto legato ai territori di provenienza. Con il vino, i neozelandesi e gli australiani possono finalmente esibire un’identità importante e piena di appeal che li aiuta a superare quel complesso di inferiorità rispetto al Vecchio Mondo, in particolare all’Inghilterra.
Naturalmente tra Australia e Nuova Zelanda vi sono importanti differenze, di clima e di suolo, e vini di conseguenza molto diversi: in generale più ricchi, caldi e “mediterranei” quelli australiani, più snelli, acidi e aromatici quelli neozelandesi. In più, all’interno di ognuna di queste nazioni ci sono tante regioni vinicole con caratteristiche altrettanto diverse, cosa che a volte in Europa si tende un po’ a dimenticare… La Nuova Zelanda ha 12 regioni, da nord a sud, con climi che assomigliano rispettivamente alla Germania e alla Sicilia, per cui è molto difficile generalizzare.
Un’altra cosa interessante che è emersa è il forte campanilismo sul vino tra Australia e Nuova Zelanda: proprio perché sta diventando un simbolo di orgoglio e di identità nazionale, ognuno rivendica la superiorità del proprio vino sull’altro come avviene per lo sport. Questa, comunque, è la conseguenza del fatto che negli ultimi 15-20 anni il vino è entrato nelle abitudini alimentari della gente, e questo è un fatto assolutamente nuovo. Fino allora, gli unici vini conosciuti e bevuti erano lo Sherry e il Porto, e non c’era alcuna cultura enologica. Oggi, invece, è normale abbinare al cibo il vino. In Nuova Zelanda, ad esempio, piacciono molto gli aromi fruttati e una certa freschezza acida, considerata gradevole specialmente con tanti piatti di carne.
La situazione è però molto diversa rispetto all’Europa, soprattutto per il tipo di consumo: da noi non c’è la stessa differenza tra consumo “alto” e consumo “basso” di vino così caratteristica dell’Europa, come non c’è quella tra gastronomi raffinati e gente comune. C’è ovviamente un commercio privato di vini famosi, ma è molto marginale. Il vino si acquista perlopiù al supermercato, e sono proprio i supermercati i grandi “orientatori” del mercato, anche per quanto riguarda i vini di alta gamma, più che le guide e i giornali. Certo, ci sono anche questi ma hanno un’importanza relativa.

Approfondiamo queste differenze tra l’Europa e la Nuova Zelanda. In una situazione così nuova e interessante, com’è percepito il vino italiano e qual è il suo spazio di mercato?
Storicamente la Nuova Zelanda non ha avuto immigrati italiani. L’Australia ha accolto, invece, alcune comunità, specialmente nella zona di Melbourne, ma il vino che essi hanno portato con sé è stato di livello molto basso, e questo è rimasto al di fuori dei circuiti commerciali importanti. In entrambi i paesi, quindi, l’idea che si è avuta per molti anni del vino italiano non corrispondeva a quella qualità che, invece, rappresentava nei paesi di cultura enologica sviluppata: da noi, anche nei ristoranti italiani migliori il vino è stato fino a pochissimo tempo fa neozelandese o australiano. Più in generale, in Nuova Zelanda e in Australia si sono coltivate le varietà francesi “internazionali”, quindi la gente conosce quelle, e i “grandi vini” sono i Pinot Noir, i Cabernet Sauvignon, gli Shyraz…
Solo a partire dagli ultimi 8-10 anni alcuni produttori hanno cominciato a fare vini da vitigni italiani: sangiovese, corvina, nebbiolo, arneis… Sono nati così vini locali da uve italiane! Ma questo non deve sorprendere né scandalizzare, in un paese viticolo così nuovo come il nostro. Anzi, è proprio questo che permette ai consumatori di conoscere e apprezzare le potenzialità del vino italiano: secondo me occorre prima che il mercato proponga vini neozelandesi (o australiani) fatti con uve italiane; quando la gente avrà cominciato a conoscerli, si potrà creare anche una forte importazione del vino italiano stesso. È un processo cominciato da poco tempo. Certamente, nella fascia “di base” si beve già oggi molto più vino italiano di 10 anni fa: nei supermercati si trovano prodotti anche discreti, intorno ai 6 euro a bottiglia. E nei ristoranti migliori, anche grazie all’azione di Slow Food, cominciano a entrare alcune grandi e blasonate bottiglie. Però, vi sono ancora grandissimi margini di crescita per il vino italiano nel nostro paese, e il motivo principale risiede proprio nell’originalità della proposta.
Noi abbiamo già tanti Pinot Noir e Cabernet Sauvignon molto buoni, e in questo senso c’è una grande competizione con gli analoghi francesi. Molti produttori cominciano a vedere di malocchio l’importazione di vino di Bordeaux e Borgogna. Invece, non abbiamo ancora grandi Sangiovese, Corvine, Nebbiolo australiani o neozelandesi, e probabilmente queste non sono varietà così facilmente adattabili: ecco la grande chance che, secondo me, si apre per i vini italiani. In più, molte varietà del vostro paese – penso ad esempio al Sangiovese – possono comportarsi molto bene con i cibi per la loro verve e freschezza, e questa è una caratteristica molto apprezzata dai neozelandesi e dagli australiani. Pensa che oggi vini con caratteristiche di frutto e freschezza, addirittura frizzanti, stanno entrando anche nel mercato orientale, perché si abbinano benissimo con la cucina asiatica speziata: è l’onda della tendenza neozelandese e australiana che si fa sentire. Vedo, quindi, un futuro molto roseo per l’Italia più che per le altre grandi nazioni storiche del vino, la Francia e la Spagna.

Ma quali sono i vini e le regioni italiane più note da voi?
La Toscana con il Chianti, il Veneto con il Valpolicella e l’Amarone, alcuni vini pugliesi quali Negroamaro e Primitivo, qualche Aglianico… Forse il più popolare per il rapporto tra qualità e prezzo è il Montepulciano d’Abruzzo, mentre devo dire che Sardegna, Sicilia e Piemonte sono ancora poco conosciuti. Certamente Barolo e Barbaresco scontano anche il loro prezzo alto: infatti è più facile trovare Barbera e Dolcetto. In ogni caso, però, fondamentale rimane per noi neozelandesi la facilità di abbinare il vino con il cibo: manca quasi del tutto (non so se sia un bene o un male, ma è così) quell’idea di “vino da degustazione” che avete voi in Italia o in Francia. Ripeto la mia opinione: l’abbinabilità del vino col cibo sarà la grande fortuna del vino italiano nei prossimi anni!

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5/03/2007

Campioni del mondo, cap. 1

Troppo spesso si parla dei vini del Vecchio Mondo come schiacciati dall’avanzata prepotente dei nuovi continenti enologici, in un mercato dominato da produzioni marcatamente di cantina e dai grandi numeri. In questa sezione non vogliamo certo negare tale assunto, che abbiamo fatto nostro denunciando la preoccupazione legittima dei vignaioli europei nei confronti di un fenomeno che ha evidenti ripercussioni economiche e, anche, sociali. Non a caso, abbiamo recentemente affrontato l’argomento sulle pagine di questa rivista e, non a caso, si è da poco concluso a Montpellier Vignerons d’Europe dove, ancora una volta, si sono ribaditi la priorità della produzione di qualità sul marketing e il ruolo strategico di terroir, vignerons e denominazioni d’origine.
Eppure, eppure spesso la traversata oceanica avviene all’inverso. Spesso il prodotto di qualità – italiano, in questo caso – naviga per i mari o valica le montagne, cambia continente e presso i “popoli di conquista” assume in molti casi le fattezze di un mito. Come il vino, anche noi abbiamo sondato altri paesi e ascoltato le voci autorevoli di un winewriter neozelandese, un “ristoratore” statunitense sui generis e un importatore tedesco. Qual è la percezione del vino italiano all’estero e, soprattutto, quali sono i sistemi per decretare o mantenere il successo dell’Italian style, tanto dei produttori affermati quanto dei piccoli vignerons? Ce ne parlano Paul White, Joe Bastianich e Eberhard Spangenberg, in tre puntate che pubblicheremo in questi giorni.

Tratto da Slowfood 26.

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5/02/2007

Slowfood 26 on-line

E' in linea Slowfood 26.
Qui trovate il sommario, con tutti gli articoli scaricabili in pdf.

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