Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

4/27/2007

Benessere animale e altre storie

Su La Repubblica di oggi, un articolo su Mario Calabresi su un metodo di produzione del foie gras meno crudele.
In generale, si parla di sofferenza e di "benessere" animale. A corredo, a pag. 23 del quotidiano, un commento di Carlin Petrini sull'argomento, che riportiamo qui. Cosa ne pensate?


Mr. Brock e il suo sistema non grandguignolesco di allevare le oche per il foie gras (al quale da gastronomi guardiamo con interesse), ci offrono lo spunto per una riflessione sulle sofferenze che la zootecnia industriale e un’agricoltura prostrata alle regole del profitto impongono agli animali, e di conseguenza al pianeta.
Il gusto è un fattore culturale: sarebbe ben poca cosa se si riducesse a un mulinare di papille, alle reazioni enzimatiche che gorgogliano nei succhi gastrici, a una scarica di endorfine salivari. Messo a tacere in questa porzione di mondo il bisogno primario dell’uomo – soddisfare la fame da essere onnivoro, dotato di canini – il gastronomo evolve e muta insieme ai paesaggi, alla rivoluzione verde, alla globalizzazione alimentare e il suo ruolo si plasma su nuovi equilibri, in bilico fra il piacere della tavola e il rispetto di quel che sta a monte e intorno a essa: acque, terre e gli animali che le abitano, liberi o in cattività. E oggi si affaccia urgente un bisogno addirittura antecedente all’uomo: preservare il pianeta e la natura che lo abita. Perché senza di essa, egli non è. Un’istanza della quale un gastronomo ha il dovere di farsi carico per ragioni etiche e filosofiche, ma anche per preservare il piacere che verrà.
Chiunque si occupi di cibo sa che la prima fonte d’inquinamento del pianeta è diventato l’allevamento industriale, perché per produrre un chilo di proteine animali ne servono fino a sedici di vegetali. Insomma, sottraiamo risorse vegetali all’alimentazione umana, inquiniamo i campi con concimi di sintesi per alimentare vitelli-cyborg, trasportati da un capo all’altro del pianeta senza spazio/acqua/aria in camion-lager, che nel frattempo inquinano (Tim Lang, professore della City University di Londra, ha coniato il termine food-miles). Il tutto, per ottenere carne che non dà piacere.
La sequenza delle nequizie che hanno imbrattato il filantropico verbo “allevare” – incipit dell’umanità stanziale e di fatto del mondo come lo conosciamo oggi – poi continuano: pulcini antibiotizzati fin dalla nascita e compressi in gabbia, vacche frisone dopate per indurle a produrre il sestuplo del latte quotidiano, animali ridotti a ingranaggi di una catena di montaggio, oliata da una produzione intensiva a suon di chimica.
Si è perso il concetto di “benessere animale”, una teoria – o meglio un principio scientifico e filosofico di armonia con la natura – secondo la quale per ottenere carni buone occorre innanzi tutto una buona alimentazione per gli animali, ma anche che essi non siano sottoposti a stress in stalla, nel trasporto e nella macellazione. «Non importa che gli animali pensino, non importa che parlino; importa solo che non soffrano» ha scritto il filosofo Jeremy Bentham. Questo ha il dovere di dire oggi il neo-gastronomo, nel promuovere un consumo più responsabile di carne: mangiarne meno, proveniente da animali allevati liberi, nel rispetto dei ritmi naturali. Che danno carne più buona, che non puzza d’ingranaggio industriale.

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4/24/2007

Il sapere minuto è la cura globale

Domani esce Slowfood 26. Vi anticipiamo l'editoriale di Serena Milano.

Non è troppo tardi. Gli oceani e i fiumi sono malati gravi, ma non incurabili. Il rimedio esiste: sta nella politica, nei gesti quotidiani di ognuno di noi, nel lavoro delle comunità di pescatori, nella passione di chi trasforma le materie prime.
Il binomio ecologia e gastronomia – che è alla base di un nuovo approccio all’agricoltura e, quindi, al cibo – vale anche per l’acqua. E l’acqua, come la terra, ha bisogno periodicamente di riposare e di rigenerarsi.
Ecco, in sintesi, i messaggi positivi di questo numero, che affiancano l’allarme, doveroso, per il collasso degli ambienti marini e fluviali. La cura può partire da piccole iniziative di tutela, riscoperta, valorizzazione dei territori e dei prodotti locali.
Lo dimostra l’esperienza di Torre Guaceto, una riserva magnifica a nord di Brindisi: 1000 ettari di terra e 2000 di mare che conservano una biodiversità straordinaria (con litorali di sabbia e rocce, un promontorio sospeso sul mare, olivi centenari, cespugli di salicornia, mirto, lentisco, gigli di mare…), la quale dal 2000 a oggi ha registrato un aumento del 400% della fauna ittica (triglie, scorfani, dentici, orate, saraghi, polpi, seppie…), con un tale riscontro economico per i pescatori da indurli a chiedere un ampliamento della riserva marina.
E lo dimostra la passione di una comunità di pescatori e cuochi della Loira, che sta lavorando per recuperare un rapporto più sano e consapevole con il fiume e il suo territorio. In questo numero vi raccontiamo la storia di un pescatore (Jean-Jack Martin), di un professore (Philippe Boisneau) e di un cuoco (Bernard Charret), impegnati sul fronte della Loira per preservare e portare in tavola un piccolo pesce: la pucelle d’Orléans (ovvero la cheppia, una sardina d’acqua dolce che risale il fiume seguendo il percorso di Giovanna d’Arco, da Tours a Orléans).
Soltanto da progetti di questo genere – concreti, locali e comunitari – può nascere una nuova politica globale e, quindi, una nuova gestione delle acque. E non si tratta di una posizione minimalista, eredità dell’approccio cui ci hanno abituato interventi come i Presìdi o i mercati della terra.
Lo conferma uno studio pubblicato nel novembre scorso dalla rivista Science, come esito di un lavoro di ricerca durato quattro anni. Michele Fossi ne intervista l’autore principale, il professore di biologia della Dalhousie University di Halifax, Boris Worm. Dopo un’analisi sullo stato di salute dei mari e il quadro gravissimo e desolante che ne emerge (la maggior parte degli stock ittici ipersfruttati, la diminuzione della quantità totale del pescato e della sua varietà…), Worm conclude con un messaggio positivo: «L’oceano ha un buon potenziale di ripresa, la rigenerazione di alcuni stock ipersfruttati può avvenire nel giro di pochi anni». Nelle acque dei parchi marini e delle riserve di pesca, infatti, l’aumento medio della biodiversità marina è del 23% dopo appena 5-10 anni dall’entrata in vigore del bando di pesca. Basta lasciare riposare i mari, dunque, esattamente come la saggezza contadina insegna, da millenni, a lasciar riposare i campi per continuare ad avere buoni raccolti.
Passando dal mare alla terraferma, un altro bell’articolo di questo numero ribadisce l’importanza dell’agire locale, del sapere minuto, sorprendentemente simile in angoli del mondo lontani tra loro migliaia di miglia. Stefano Cavallitto e Alessandro La Macchia raccontano l’esperienza di Florin e Gigi, due coltivatori di mele rumeni, nei cinque giorni di Terra Madre, tra Torino (sede dell’evento) e Dogliani (dove i rumeni erano ospiti). Proprio il sapere minuto accomuna questi contadini agli altri 5000 partecipanti dell’Incontro mondiale tra le comunità del cibo: «Nel momento in cui apprendono che perfino il presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, verrà a portare il saluto alle comunità, Florin e Gigi (i due rappresentanti rumeni) intuiscono come tutto questo affanno di bandiere, fanfare, giornalisti e persone importanti ruoti attorno a loro, ai loro saperi materiali e, in definitiva, intorno alle loro mele».
Dopo il mare e le comunità, chiudiamo segnalando un’altra sezione importante, dedicata alla storia e alla realtà dei Gas, i gruppi di acquisto solidale. A partire dalla loro prima esperienza, a Fidenza nel 1994, i Gas hanno contribuito a mostrare che esistono alternative all’economia globale e che sono praticabili nell’immediato. Sono prova di come si possa scegliere uno stile di vita che unisca i concetti di consumo critico e di risparmio etico.
Vi presentiamo i gruppi di acquisto italiani con una serie di articoli che cercano di tracciare un quadro esauriente della loro storia, delle loro differenze, delle loro caratteristiche principali. Ci interrogheremo e cercheremo di capire se Gas e Slow Food possano dialogare e collaborare in modo organico vista la contiguità dell’assunto di partenza (la convinzione che il consumatore, con le sue scelte, possa influenzare la politica) e degli obiettivi (un mercato più trasparente e giusto: sia per chi produce sia per chi acquista e consuma).

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4/19/2007

Osterie d’Italia

Molte crescono reperibili nei prati, nei pascoli, sulle rive dei fossati, nei boschi lungo le rive dei sentieri, ai piedi dei muri, tra i filari della vite e addirittura tra le macerie; sono tanti gli appassionati che le vanno a cercare in campagna e poi le accudiscono in un quadratino di terra sul balcone di casa. Scopriamo le osterie d’Italia che sfruttano, nei loro menù, le erbe aromatiche…

L’importanza delle erbe aromatiche è basilare in cucina – sapori forti, delicati, in alcuni casi amarissimi, arricchiscono semplici piatti, rivoluzionandoli – e siamo così abituati a servircene da non renderci più conto di quanto siano fondamentali. Lo stesso piatto può cambiare completamente sapore secondo l’erba usata: basilico, prezzemolo, rosmarino, maggiorana, timo, serpillo, menta e mentuccia, erba di san Pietro, salvia, alloro, dragoncello, melissa, finocchietto selvatico. E, ancora, foglie di primule e violette, ortiche, barba di becco, cicerbita, pimpinella, dente di leone, dente di cane, porcellana, erba cannella, borragine, crescione – anche di fontana –, germogli di luppolo e ruchetta conferiscono alle singole pietanze sapori unici, non raggiungibili altrimenti. È, però, necessaria un’approfondita conoscenza di tutte queste tipologie per non ricavarne effetti sgraditi. Il sapore dell’erba aromatica cruda, inoltre, non è sempre lo stesso che si sviluppa con la cottura, per cui solo l’esperienza può garantire preparazioni che riscontrino il favore dei commensali.
Il prezzemolo, come si dice, si mette da tutte le parti e serve anche come guarnizione, salvia e rosmarino sono usati quotidianamente per arricchire arrosti, patate al forno o fritte, soffritti e minestre, la maggiorana esalta i gusti dei ripieni – se manca, non si può neanche pensare di preparare la cima ripiena ligure o la torta pasqualina –, l’alloro, nell’antichità classica sacro ad Apollo, aromatizza selvaggina, sughi di carne, crostini e castagne. Le foglie e i germogli giovani giovani di una varietà di santoreggia, l’erba cerea, dall’aroma che ricorda la menta e il timo, vanno a profumare, appena raccolti o dopo essiccazione, gli umidi, soprattutto di legumi. La melissa – erba cedrina o cedronella – che sprigiona un buon profumo di limone quando le foglie sono stropicciate, entra in insalate, ripieni, frittate e con altri aromi insaporisce le carni bianchi arrostite. L’amarella, appartenente al genere Artemisia e parente stretta del dragoncello, è comune nei nostri campi e raccolta da chi ama dare agli arrosti un sapore particolarmente robusto. Molte le varietà di acetosa (Rumex acetosa) – erba brusca –, comune nei prati e nei boschi del Nord, da non confondere con l’acetosella (Oxalis acetosella) o erba alleluia, simile al trifoglio ma meno reperibile. Ottima nelle frittate, nelle minestre e per alleggerire il sapore delle carni grasse, in Toscana entra spesso nella panzanella. In Lombardia con erba brusca, burro e un po’ di farina si prepara una salsa che si abbina felicemente con bolliti, selvaggina e pollame. L’aglio selvatico, in diverse varietà – aglio orsino e aglio giallo, che però assomiglia più al porro –, è molto comune e utilizzato crudo o poco cotto per insaporire formaggi, insalate e frittate; l’erba cipollina (Allium schoenoprosum), dal sapore agliaceo più delicato della normale cipolla, si abbina con ogni condimento, le foglie tenere di aneto o finocchio bastardo profumano insalate e cacciagione. Con le foglie giovani di altea si arricchiscono le misticanze, mentre la radice è ottima lessata e soffritta nel burro. L’Artemisia campestris, molto simile all’assenzio, nell’aneddotica popolare un tempo utilizzata dalle streghe per le loro arti magiche, entra in Liguria nel preboggiòn e con il suo sapore amarognolo alleggerisce carni e pesci grassi; in Friuli Venezia Giulia aromatizza svariate tipologie di grappa e, come l’assenzio (Artemisia absinthium), molto comune nei nostri campi, era utilizzata al tempo dei Romani per speziare i vini. L’assenzio – anche quello selvatico (Artemisia vulgaris) –per il gusto amaro è usato in cucina per rendere stuzzicanti alcune salse di accompagnamento o ripieni per carni da cuocere arrosto, mentre le foglioline sminuzzate rendono gradevolmente amarognola qualsiasi insalata. Entrano nel preboggiòn ligure anche la bardana (Arctium lappa), nota anche come lappola, e la borragine (Borago officinalis), che cresce in modo spontaneo lungo i corsi d’acqua e i sentieri offrendo fiori di colore blu vivo, che sembrerebbero allontanare la malinconia e, inoltre, abbelliscono e insaporiscono, con calendula e nasturzi, fresche insalate di lattuga. Con borragine, foglie di cavolo e lumache di vigna si prepara seguendo una ricetta antichissima il brodo di Santa Maria che, oltre a essere buono, sarebbe miracoloso per i disturbi dell’apparato respiratorio. Il cerfoglio (Anthriscus cerfolius), simile al prezzemolo ma di sapore più delicato, che richiama vagamente l’anice, entra nel preboggiòn e nel ripieno di molti ravioli, arricchisce le misticanze e aromatizza in modo particolare svariate minestre.
Arrivate a noi grazie alla saggezza popolare che le ha attentamente selezionate, le erbe aromatiche giocano un ruolo caratterizzante in ripieni, minestroni, risotti, donando loro quel tocco territoriale, che li riconduce alle regioni di provenienza. Molte sono reperibili nei prati, nei pascoli, sulle rive dei fossati, nei boschi, lungo le rive dei sentieri, ai piedi dei muri, tra i filari della vite e addirittura tra le macerie; sono tanti gli appassionati che le vanno a cercare in campagna e poi le accudiscono in un quadratino di terra sul balcone di casa. In Sardegna agli innumerevoli profumi delle altre regioni si aggiungono quelli del mirto, cha ha foglie e bacche molto aromatiche, indispensabili per cucinare la gallina al mirto e insaporire la pernice sott’olio.
Il discorso su queste risorse insostituibili per la nostra tavola potrebbe protrarsi all’infinito. Un grazie ai cuochi che continuano a ricercarle e adattano parti di giardini e orti per accogliere specie alimentari spontanee, cui se ne aggiungeranno nel tempo altre senza alcun lavoro ulteriore. Alcuni di questi, nei locali che di seguito indichiamo, sapranno offrire ai vostri palati sensazioni, che nascono dall’abbinamento di un’abilità culinaria collaudata con una buona conoscenza di questi semplici ingredienti, che porta a una loro piena valorizzazione.

Bel deuit
Via Superga, 58
Superga di Baldissero Torinese (To)
Tel. 011 9431719
Chiuso il mercoledì
Prezzi: 30-33 euro vini esclusi
Nella pace della collina vi serviranno salame crudo, tomini col bagnèt verd, involtini di prosciutto in gelatina ripieni di maionese, flan di verdure con fonduta, vitello tonnato. Classici i primi: tajarin al sugo di coniglio o ai funghi porcini, agnolotti dal plin col sugo d’arrosto, gnocchi con pesto leggero e fagiolini. Stessa musica per i secondi: brasato, un bollito succulento, coniglio alle erbe profumate, porcini fritti, trippe in umido e tofeja. Ampia la carta dei vini.

Melograno
Via Chiesa, 35
Valrovina di Bassano del Grappa (Vi)
Tel. 0424 502593
Chiuso il lunedì
Prezzi: 30-35 euro vini esclusi
In primavera sono protagonisti l’asparago bianco di Bassano e le erbe selvatiche: risotto con primizie e vezzena, gnocchetti all’ortica, ravioli di faraona. In autunno gnocchetti di ricotta e radicchio al morlacco del Grappa e noci, ravioli di castagne con patata dolce e faraona. Proseguendo, arrosti, filetto di manzo al Teroldego, bruscandoli e pinoli, faraona farcita, petto d’anatra al radicchio profumato al ginepro.
Da bere etichette del Triveneto, nazionali ed estere.

Alla posta
Via Roma, 22
Clodig di Grimacco (Ud)
Tel. 0432 725000
Prezzi: 20-22 euro vini esclusi
Tra le specialità della trattoria, pinza brisa e marve (frittata di uova, latte ed erbe) con salame della casa, vellutate con farina di mais abbrustolita e zuppe: con fiori di ruta, patate e finocchio, con castagne e porcini o alle venti erbe. Tipici l’orzotto, gli gnocchi di prugne, gli strucchi lessi. Ancora crespelle agli asparagi selvatici e al radicchio, carni cotte nel latte o in agrodolce, selvaggina con pera ruonca cotta nel vino, purè di novice (con erbe e cannella) e polenta.
Per chiudere vino dolce di San Giovanni aromatizzato con erbe e fiori.

La brinca
Via Campo di Ne, 58
Ne (Ge)
Tel. 0185 337480
Chiuso il lunedì
Prezzi: 30-35 euro vini esclusi
Se qui si sta bene, il merito è di Sergio Circella e famiglia.
Tra gli antipasti, preboggiòn, foglie di borragine o salvia in pastella, baciocca, salumi con pan martin. Il pesto al mortaio va a condire trofie, piccagge, gnocchetti di patate o castagne; inoltre, losanghe di grano tosella ai funghi e noci e ravioli di erbette cu tuccu. Seguono lattughe ripiene di carne, in brodo o in umido di pomodoro, cima di faraona, coniglio arrosto ripieno alle erbe, fritto misto alla genovese.
Per vini e distillati occorrerebbe una recensione a parte.

Il poggiolo
Via del Poggiolo, 52
San Marcello Pistoiese (Pt)
Tel. 0573 630153
Chiuso martedì sera e mercoledì
Prezzi: 20-26 euro vini esclusi
Il Poggiolo propone una cucina priva di fronzoli: gustosi i tortelli di ricotta e spinaci con ricotta di pecora, in inverno cacciagione (capriolo, lepre, cinghiale e daino), il resto dell’anno, agnello di pecora massese e capretto. In stagione tanti porcini: eccelle la zuppa, anche per l’uso sapiente delle erbe aromatiche. Buona la scelta di pecorino a latte crudo della montagna pistoiese, Presidio Slow Food.
Carta dei vini semplice che privilegia i rossi toscani.

Pietra del sale
Contrada Pietra del Sale
Frusci-Monte Carmine di Avigliano (Pz)
Tel. 0971 87063
Chiuso il lunedì e domenica sera
Prezzi: 25-30 euro vini esclusi
Dai fratelli Samela inizierete con salumi locali, caprini, pecorino di Filiano, caciocavallo podolico, melanzane e peperoni fritti o arrostiti, zucchine a scapece, insalata di ovoli. Da non perdere i ferretti con il sugo di cinghiale, le cautarogne (strascinati) con carne ed erbette, i cauzuni (ravioli di ricotta con mentuccia), i cavatelli rucola e cacioricotta. Superlativi i secondi: costate di cinghiale alle erbe, mugnulatieddi, baccalà fritto con peperoni crusch, cutturieddu.
In cantina etichette di Aglianico e nazionali.

Santa Rughe
Via Carlo Felice, 2
Gavoi (Nu)
Tel. 0784 53774
Chiuso il mercoledì, mai in agosto
Prezzi: 27-30 euro vini esclusi
In apertura, salsicce, prosciutto, pancetta e lardo di Gavoi, porcini, olive, melanzane, favette, frittelle di cervella, animelle, trippe, purpuzza e pecorini. Non deluderanno i malloreddus con ricotta di pecora, zafferano e menta, i ravioli ripieni di formaggio, i lisandros con porcini e, in primavera, una minestra preparata con 10 erbe selvatiche: l’erbuzzu. A seguire carni di vitella, asino o cavallo, porcetto arrosto, stufato di cinghiale, agnello in umido. Inoltre, la pizza, anche per celiaci, come alcuni primi.

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4/16/2007

Dai Vignerons d’Europe nasce una proposta per difendere i vini di terroir del Vecchio Continente

Si è concluso oggi, presso il centro congressi Corum di Montpellier, Vignerons d’Europe.

I vitivinicoltori di tutta Europa, convocati da Slow Food con il sostegno della Regione Languedoc e Roussillon e dell’Area Metropolitana di Montpellier, ieri e oggi si sono impegnati in un confronto finalizzato a trovare una risposta comune alle pressanti sfide imposte da un mercato sempre più globalizzato e dall'imminente definizione del progetto di riforma della viticoltura della Commissione Europea, che avrà un impatto storico nel settore.

La discussione ha avuto come risultato l'elaborazione di una proposta strategica sul ruolo della vitivinicoltura europea nel mercato globale. Il documento è il frutto di una condivisione di responsabilità da parte di autorevoli rappresentanti di vignerons, un gruppo franco-italo-sloveno-portoghese che è stato capace di trovare unità (d'intenti) nella diversità (delle esperienze di ciascuno). È stato pensato e scritto con spirito europeista, cosa che non sempre sembra essere presente nella politica.
Il documento elaborato sarà pubblicato da martedì sul sito www.vigneronsdeurope.com e per trenta giorni sarà possibile, per tutti i vignerons d'Europa, inviare commenti, osservazioni, proposte.

Il documento nasce con due premesse essenziali. La prima è che i vini di terroir sono l’elemento distintivo della viticoltura europea, e in quanto tali sono da conservare e sostenere, rendendo più leggibili e comprensibili le loro differenze, senza spingerli al contrario verso l'omologazione. La seconda è che i consumatori di oggi vogliono poter scegliere e conoscere in tutta trasparenza l’origine dei prodotti e le loro caratteristiche.
Nel 2005 sono stati spesi 1,3 miliardi di euro di cui il 45% per la distillazione, il 37% per la ristrutturazione dei vigneti, il 13% per aiuti ai mosti. Attraverso l'analisi di queste spese, è necessario uno sforzo di riflessione per capire dove si è sbagliato, dove sono state piantate vigne destinate alla distillazione.

Ecco dunque i punti essenziali del documento.

I vignerons europei riuniti a Montpellier dicono NO alle proposte contro la viticoltura europea:
NO alla delocalizzazione delle vigne;
NO ai mosti importati da un paese all’altro anche fra paesi della comunità europea senza trasparenza sull’origine dei prodotti: “prodotto in ….. / made in …..” deve significare “da vigne di quel paese”;
NO alla sovvenzione di produzioni destinate alla distillazione;
NO a “arricchimenti” per aumentare a basso costo il grado alcolico di vini correnti con altissime rese per ettaro;
SI a espianti nelle zone non adatte alla viticoltura, di vigneti destinati alla distillazione e di vigneti che ricorrono sistematicamente all’arricchimento con aiuti europei;
NO a espianti nelle zone vocate di montagna e collina, e nelle zone storiche di grande tradizione viticola;
NO a etichette equivoche che non dicono cosa c’è nella bottiglia;
SI a etichette più dettagliate per provenienza e pratiche enologiche;
SI a una regolamentazione europea che autorizzi e organizzi l’espressione collettiva di terroir nel quadro delle denominazioni di origine per una gestione collettiva di un bene pubblico attraverso la delimitazione dei terroir, la definizione di un’etica a servizio dei terroir, la definizione di strumenti conformi a questa etica.

I vignerons d'Europa affermano anche che l’equilibrio di mercato è un mezzo, il fine e’ ottenere che il vigneron resti sul territorio per fare il vino, per conservare il territorio, per difendere il paesaggio, per la gioia del cosumatore.

Il documento finale verrà inviato alla Commissaria europea all'Agricoltura Marianne Fischer-Boel e a tutti i membri del Parlamento europeo.

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4/12/2007

A Montpellier!



Caro Vigneron,
Il 14 e 15 aprile si terrà a Montpellier Vignerons d’Europe un grande evento che ti riguarda da vicino.
Slow Food invita te e altri 1000 vigneron provenienti da tutta Europa a confrontarsi sul futuro del vino nel Vecchio Continente.

Perché un evento di questo tipo?
In questa fase di crisi economica e identitaria del comparto vitivinicolo europeo si moltiplicano convegni, ricerche di mercato, commissioni parlamentari e progetti di riforma a livello europeo, ma è assente la parola dei produttori.
L’incontro di Montpellier vuole invece mettere la vostra categoria, le vostre esperienze e riflessioni al centro del dibattito.
A quest’incontro inviteremo il Commissario europeo all’agricoltura Mariann Fischer Boel e numerosi rappresentanti dei ministeri dell’agricoltura dei paesi europei per ascoltare, per fare loro comprendere che è indispensabile il vostro contributo a qualsiasi riforma, a ogni politica nazionale ed europea che si voglia efficace.

Programma
La manifestazione è organizzata in due sessioni plenarie a inizio e fine lavori (sabato e domenica mattina) mentre il sabato pomeriggio i partecipanti si suddivideranno in due workshop: uno dedicato al progetto di riassetto del settore vitivinicolo europeo promosso dalla Commissione Europea, un altro dedicato alla nozione di terroir e al ruolo del vigneron, entrambi elementi distintivi della cultura viticola continentale. Si discuterà, inoltre, dell’importanza di sviluppare pratiche ecocompatibili in cantina e in vigna, non solo per una necessità di salvaguardia del patrimonio ambientale, ma anche per rafforzare, concretizzare e rivalutare quella nozione di terroir, che alcune derive tecnologiche e commerciali hanno svilito, rendendolo un semplice argomento di marketing.

La Riforma Ocm
Entro l’autunno 2007 la Commissione europea vuole riformare il sistema produttivo del Vecchio Continente. Per ora la bozza presentata ci pare deficitaria in molti dei suoi punti e scritta per favorire industriali e imbottigliatori. Slow Food in occasione di Terra Madre 2006 aveva fatto confluire a Torino 50 vignerons europei, dal loro lavoro è nata una proposta seria e costruttiva che sarà oggetto di discussione a Montpellier. Pensiamo che sia utile che gli inviati a Vigneron d’Europe la conoscano in anticipo per partecipare in modo più consapevole alla discussione e per poter apportare modifiche al documento che mettiamo in allegato.

Potrai confermare la tua partecipazione, o chiedere ulteriori informazioni, scrivendo a vigneron@slowfood.it, oppure contattando Giancarlo Gariglio allo 0172 419683 o al 338 6008420.
Questo blog non verrà aggiornato fino a lunedì, perché Slow Food si trasferisce a Montpellier!

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Il catalogo dei semi

Esce oggi il secondo articolo di Carlo Petrini su Repubblica. Lo trovate in prima pagina e anche nella versione on-line del quotidiano.

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4/10/2007

Per chi suona la campana? Per i gastronomi!

Nessun uomo è un'isola, intero per se stesso;
Ogni uomo è un pezzo del continente,
parte della Terra intera; e se una sola zolla vien portata via
dall'onda del mare, qualcosa all'Europa viene a mancare,
come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o la casa di un uomo, di un amico o la tua stessa casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce perché
io son parte vivente del genere umano.
E così non chiedere mai per chi suona la campana:
essa suona per te.


È John Donne, e non si tratta di una poesia poco nota, sebbene le traduzioni siano molteplici.
Potrebbe applicarsi meravigliosamente a un ragionamento sul ruolo e sulle responsabilità del gastronomo: cosa possa e cosa non debba mangiare, quanto possa influire sulla salute del pianeta, quanto il “buono” ci sia consegnato dalla natura con il compito di non sperperarlo e quanto l’egoismo del gastronomo dovrebbe tradursi anche in atteggiamenti lungimiranti, che gli consentano di assaporare gli stessi piaceri in futuro.
Non si tratta di dettare regole, imporre divieti, divulgare liste di proscrizione intorno ai cibi: ma soltanto di sentirsi parte del tutto, come scriveva Donne. E dunque di sentirsi “diminuiti”, meno felici, meno gastronomi, se dal 2048, come sembra, gran parte degli stock ittici saranno di fatto esauriti. E dunque di sentirsi “diminuiti" se si depaupera la biodiversità, se si estingue una razza, una varietà, una tradizione.

Ogni polemica, qui, è fuori luogo: non parliamo di punteggi piu o meno alti per questo o quell’altro chef, e neppure della sacrosanta libertà di mangiare quel che ci pare. Parliamo “soltanto” della libertà di potercelo permettere ancora a lungo, oppure no. E dunque quel “soltanto” copre un infinito, che si nutre di responsabilità non pedante, non noiosa, non stucchevole. Ma fondamentalmente egoista. Per non diventare "gastronomi" né vecchi né nuovi, ma semplicemente "a scadenza".
“La libertà è una forma di disciplina” cantava Giovanni Lindo Ferretti intorno agli anni Ottanta.
Mentre c'è ancora qualcuno che pensa, come in quella meraviglisa parodia di Corrado Guzzanti sulla Casa delle Libertà, che si tratti di un posto dove si fa tutti quel-cazzo-che-ci-pare…
(Alessandro Monchiero)

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4/05/2007

Cucinare con calma

Sui contrafforti della collina torinese con Boosta e Ninja dei Subsonica.
Tratto da Slowfood 25. L'articolo è di Alberto Campo, le foto sono di Alex Astegiano.




Per una volta giochiamo in casa: l’invito a cena con conversazione spetta ai Subsonica, che per l’occasione eleggono a delegati enogastronomici il batterista Ninja e il tastierista – ma anche scrittore e prossimamente regista – Boosta. Appuntamento in piazza Vittorio e poi trasferimento automobilistico “in cordata” verso i primi contrafforti della collina che sale a Pino Torinese. Destinazione: l’Antica trattoria con calma, in strada Cartman. Che “antica” in senso stretto non è, avendo appena otto anni di vita, ma ha sede in un luogo storico: i locali sono gli stessi che ospitavano decenni fa la piola chiamata Stella Rossa, tipico ritrovo di artisti e gente di sinistra. A testimoniare quel passato, nella sala in cui ceniamo, dietro al bancone del bar, resiste un murale militante vecchio stile, di quelli che si dipingevano allora in cambio del vitto.
Il luogo è musicale per vocazione, anche se intonato su registri che poco hanno a che vedere coi nostri commensali. Qui i gestori hanno un debole per il jazz, che scorre – mischiato al blues – in sottofondo ed è protagonista di serate tematiche. La nomea del luogo, confermata a viva voce da chi serve al tavolo, dichiara vocazione per la cucina territoriale e attitudine “curata ma informale”. Consultiamo il menù, mentre a Ninja viene affidato il compito di scegliere il vino. Batte la concorrenza una Barbera targata Boglietti: Vigna dei Romani, annata 2001. «Sono un fan della Barbera d’Alba, soprattutto della zona di La Morra, perché ha i vitigni a stretto contatto con quelli del nebbiolo, e così – diceva mio nonno - la Barbera “baroleggia”» spiega il motore ritmico dei Subsonica.


Che rapporto avete col cibo?
(B) A noi tutti piace mangiare bene e, quando è possibile, organizziamo ancora delle scampagnate domenicali, ma è un lusso che nell’arco di 10 anni ci siamo concessi poche volte… Come gruppo il nostro rapporto col cibo è complicato dagli impegni di lavoro. Quando siamo in tournée aneliamo a un buon pranzo o a una buona cena, ma quasi sempre ci alimentiamo in funzione del tempo a disposizione e degli spostamenti. Va un po’ meglio se siamo in sala di registrazione, anche se coi ritmi di Casasonica alla fine è difficile andare a cenare a un’ora decente. E si sa che trovare un ristorante aperto a Torino dopo le 22.30 non è facile.
(N) La nostra giornata tipo, adesso che stiamo preparando questo disco (la parte “unplugged” di Terrestre Live, nda), prevede una pausa pranzo verso le 13.30, con ordinazioni sul foglio che arriva dal bar vicino allo studio, e poi avanti fino a sera inoltrata…
(B) Ma il cibo resta un nostro interesse al punto che, personalmente, sto cercando di convincere i miei soci ad aprire un ristorante… Più passano gli anni e sempre meno abbiamo a che fare con lo stereotipo “sesso, droga e rock’n’roll”: crescendo abbiamo imparato a usare il tempo con saggezza, e andare a cena con gli amici rimane una delle cose migliori che puoi fare, l’unico vizio che rivendico.
(N) Il mio rapporto col cibo è maturato negli anni: fino all’università era essenzialmente un fatto tecnico legato al nutrimento, poi col tempo ho scoperto che mangiare può essere un piacere tanto per il palato quanto per l’aspetto conviviale.



E quando siete in tournée, come ve la cavate?
(B) Raccontarlo sulla rivista di Slow Food è drammatico: il pranzo è stato per anni sinonimo di autogrill. Ultimamente un po’ meno: a costo di alzarci prima il mattino, cerchiamo di andare in ristoranti vicini al posto del concerto, affidando a Cipo, il nostro fonico, il compito di selezionarli in base alle indicazioni delle varie guide. Anche perché quello rimane l’unico pasto vero della giornata: prima dello spettacolo alcuni di noi mangiano il minimo indispensabile, nonostante che per noi lavori un catering apposito che ci segue in giro per l’Italia, una struttura abituata a servire i vari Rolling Stones, U2 e Robin Williams. Nelle ultime tournée, tra musicisti, tecnici e roadies, ci siamo mossi in 35 e andare tutti al ristorante, per di più in orari diversi, sarebbe stato macchinoso.
(N) Del resto, anche tra noi cinque vi sono esigenze diverse, come diceva Boosta: prima di suonare io ho bisogno di assumere un pasto completo, così come Vicio, il bassista, perché per noi suonare richiede uno sforzo che non puoi sostenere a digiuno, mentre Samuel e Max prendono giusto un’insalata o qualche verdura.

Intanto planano sulla tavola le portate con gli antipasti. Ci siamo lasciati prendere la mano. Salumi misti, con supplemento di vitello tonnato, per Boosta. Fassone marinato con toma di Lanzo e miele di castagno per Ninja. Crostino con manteca di Vicoforte e uva fragola per il fotografo. Un rassicurante “misto freddo alla piemontese” per chi scrive. E un’insalata di gallina alla senape a nome collettivo. Morale: tutti assaggiamo tutto, colti da un irresistibile accesso di golosa promiscuità. Eccellente qualità media, con nota di merito per i salumi, tra cui spiccano la mortadella ossolana e il salam d’ turgia. Ne usciamo un po’ provati, ma questo non arresta la conversazione…

Chi di voi cucina?
(B) Dipende da cosa intendiamo per “cucinare”…
(N) Diciamo che per un certo periodo la discussione era sulle migliori tecniche di cottura dei sofficini…
(B) Ciascuno ha una sua specialità, però. Max fa la pasta “alla casaccina”, con pomodorini e toma fresca. Vicio prepara una specie di pollo alle verdure, davvero ottimo. Di Samuel ricorderei, invece, oltre alle patate al cartoccio, quelle buttate dentro al camino, pizze pregevoli. Io, che sono il più ignorante di tutti, ho il grande pregio di avere una madre che cucina splendidamente, quindi applico questa modalità: vado al supermercato, mi guardo intorno, scelgo la verdura che più mi attrae, torno a casa e la chiamo, dicendole cosa ho comprato, e immancabilmente lei ha una ricetta appropriata che io seguo per filo e per segno. Mi piace il rituale: metti su un disco, apri una bottiglia di vino, prepari il soffritto… Una zona di vero chill out.
(N) Io cucino in modo elementare, adesso sono a pagina sei o sette di un libro sui primi, e l’ultima era quella con la ricetta della pasta alla carbonara, che al momento è il mio piatto forte. In realtà i veri addetti alla cucina, in virtù delle capacità tecniche dimostrate, sono Vicio e Samuel. Lo abbiamo sperimentato nei “ritiri” con cui era cominciata la preparazione di Amorematico e Terrestre, nella cascina della mia famiglia a Cantalupa, nel Pinerolese. A noi altri spettava, invece, il compito di sparecchiare e lavare i piatti.



vQuali sono le migliori forchette tra voi?
(B) In senso “civile”, direi io e il Ninja. Max è invece ingannevole: apparentemente sembra disinteressato al cibo e magari a cena svicola, salvo poi farsi sorprendere a mezzanotte all’attacco di un megapiatto di formaggi o salumi.

E con quali altri musicisti vi siete trovati meglio a tavola?
(B) A distanza di anni ricordo ancora le cene con Massimo e Meg dei 99 Posse in certi dehors abusivi di Napoli: pizze, mozzarelle in carrozza, pesce, paste… Era un piacere mangiare con loro.
(N) Potrei rispondere per Max, che finisce spesso in Salento, zona Sud Sound System, e lì consuma tonnellate di ricci, che penso siano per lui l’alimento migliore che ci sia.
(B) Be’, anch’io coi ricci non scherzo: mia madre è salentina, di Galatone, e ricordo che da bambino si andava per ricci, mangiandoli appena presi e tagliandosi le dita col coltellino mentre li si apriva. E ancora adesso, in qualsiasi posto d’Italia mi trovi, se sul menù vedo scritto “spaghetti ai ricci di mare” non resisto, pur sapendo che nel 90% dei casi incappi in sughi pronti. C’era un posto meraviglioso a Catania, Don Ciccio, in una piazzetta vicino al mercato del pesce, che cucinava una pasta coi ricci spettacolare, oltre a indimenticabili sarde ripiene. E dopo il concerto, per la legge del contrappasso, finivamo invece dagli ambulanti che spacciavano panini gonfi di carne di cavallo.

Frattanto scocca l’ora dei primi. Vincono la tagliatelle alla pastora del gastronomo Goria, scelte da Ninja e dal fotografo. Boosta affronta una zuppa tiepida di maltagliati e fagioli. Io non ho resistito al richiamo degli agnolotti (qui ai tre arrosti con ragù di finferli). Evaporata la prima bottiglia, replichiamo, soddisfatti dal primo giro, con la Barbera scelta da Ninja. Ci rendiamo conto che non ce la faremo coi secondi, lasciando il cuore su un capocollo di maiale al forno (Boosta) e sull’arrotolato di coniglio farcito di raschera e spinaci con salsa di brachetto (io). Tutti mirano ai dolci, per il gran finale: tortino di ricotta con cioccolato (Boosta), quenelles di mousse al gianduia (Ninja) e un’enigmatica “palla bianca” di gelato (il fotografo), mentre il Topo Gigio che è in me devia verso un avvincente giro di formaggi.

Domanda di rito: che zone d’Italia preferite in senso gastronomico?
(B) Dovessi dire la mia, quest’anno ha battuto tutti la riviera romagnola: in particolare la Locanda del pescatore, un ristorante sulla scogliera sopra Cattolica, a Isola Verde, che offre pesce dell’Adriatico crudo e cotto di qualità eccezionale: cicale di mare, cannolicchi, ricci, piovrette…
(N) Essendo io più appassionato di carne che di pesce, oltre alla cucina piemontese e a quella dell’entroterra ligure, voto per l’Umbria.

E a Torino, che consigli dareste a un forestiero?
(B) Per la cucina tipica direi Sotto la Mole, un posto tranquillo dove si mangia bene. Sul pesce non c’è gara, Mare nostrum: ci siamo affezionati, l’ambiente è piacevole e la qualità è sempre alta. Quanto alla cucina etnica, suggerirei Tobiko, il miglior giapponese della città e tra i migliori d’Italia. E sul messicano, il Malibù: ci vado da almeno da 10 anni. Per la pizza è tuttora imbattuto Gennaro Esposito, invece. Infine, per un pranzo veloce direi il Caffè Elena o il Fluido, sul Po.
(N) Be’, poi una citazione d’obbligo è per la Lutece: ricordo che nel periodo in cui registravamo Terrestre la sera andavamo lì a cena e non ci ha mai delusi.

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4/03/2007

Bambini? No, grazie

Inizio settembre 2006. Causa incendio sull’autostrada la nostra cena all’agriturismo di fiducia nell’entroterra ligure (dove i gatti passeggiano sulle pergole) è appena saltata. Per fortuna c’è posto in una pizzeria lungo la strada. Per fortuna un corno: contrariato dall’imprevisto, allarmato dall’incendio e stanco, Lele non vuole sedersi a tavola, non vuole ordinare e continua a frignare ripetendo che lui voleva andare “a Finale”. Ovviamente con il cameriere lì in piedi, taccuino pronto per le ordinazioni, stress da sabato sera e dehors pieno. Scene che osservi accadere al tavolo accanto pensando che non succederanno mai al tuo, poi arriva la serataccia anche per te. Ti scusi con il cameriere, cerchi di ignorare tuo figlio che fa i capricci e non digerisci la pizza.
Bella questione, quella dei bambini al ristorante, medaglia che non ha solo due facce perché i piccoli non sono tutti despoti capricciosi viziati e né gli addetti ai lavori solo erodi insensibili. Chi aveva torto in quella sera d’estate? All’apparenza noi genitori, che pretendiamo di portare a cena fuori un pupo così maleducato (da noi). Ma in cinque anni non era mai successo nulla di simile, come prevedere l’exploit rivierasco? E se il cameriere, invece di far buon viso a cattivo gioco e tentare di blandire il riottoso con Coca cola e budino, ci avesse un po’ maltrattati? Se invece di svolgere con professionalità il suo mestiere si fosse spazientito lasciandosi andare a poco simpatici commenti? Dalla parte del torto ci sarebbe passato lui?

Non so bene quale sia l’età media di chi blogga da queste parti né il suo stato di famiglia, ma posso immaginare che la querelle non stia proprio in cima alle sue preoccupazioni. Bene, sappia che questa non è però faccenda solo per famigliole: a chiunque prima o poi può capitare un Lele in giornata no al tavolo vicino, per non dire che tutto quanto ruota intorno ai pargoli fa business, muove soldoni, sposta consumi e pesa sulle scelte – anche gastronomiche – dei grandi.
Forse vale la pena di discuterne, allora, forse vale la pena di affrontare «pubblicamente il tema», come chiede la mamma che ci ha raccontato, con la mail che potete leggere qui sotto, la sua “brutta avventura in osteria”.
Vi anticipiamo subito che il locale, inserito nell’edizione 2006, è stato eliminato dalla guida di quest’anno (per scarsa qualità della proposta culinaria, ci dicono dalla redazione di Osterie d’Italia).
E premettiamo che se il problema del mangiar fuori con i bambini va a toccare tutte le tipologie di locali, ci sembra abbastanza sacrosanto che nelle “nostre” osterie ci si adoperi al meglio perché un pranzo o una cena non lascino altro che buoni ricordi, in tutti i sensi e a tutti. O il futuro sarà solo dell’hamburger omologato.
Simona Luparia

La mail di una mamma
Salve,
vorrei segnalarvi una sgradevolissima esperienza avuta presso la trattoria Decoratori e imbianchini (Via Lanfranchi 28 Torino) presente nella vostra guida alle osterie edizione 2006.
Domenica 11 marzo 2007 ho prenotato via telefono, per il pranzo, un tavolo per quattro adulti e due bambini, specificando che si trattava di due bambini di due anni ciascuno.
Ci rechiamo al ristorante all'ora concordata, e già il tipo di accoglienza che ci ha riservato la proprietaria ci ha fatto capire di non essere proprio graditi, a causa della presenza dei bambini. Giusto per fare un esempio, mentre stavamo ancora togliendoci i cappotti, ci è stato intimato di far sedere i piccoli, perché «noi dobbiamo passare con i piatti».
Faccio notare che in quel momento nessun tavolo della sala era ancora stato servito.
Ci arrivano gli antipasti e ci vengono lasciati sul tavolo, senza dirci di cosa si trattava (specifico che il ristorante fornisce un menù fisso, non a scelta del cliente) e nessuno si sogna di chiederci se abbiamo bisogno di qualcosa di più semplice per i bambini (faccio un esempio, uno degli antipasti consisteva in mela + insalata + cioccolato, forse non proprio il tipo di alimento più adatto e gradito ai bambini).

Continuiamo a far finta di niente, quando ad un certo punto uno dei due bambini, per motivi imperscrutabili, comincia a piangere. I genitori tentano di calmarlo,e non riuscendovi, lo portano fuori dalla sala, nel vicino giardinetto. È allora che cominciamo a sentire la proprietaria che nella sala attigua alla nostra urla a voce altissima, in modo da poter essere ascoltata da tutti, frasi del tipo «Non si portano i bambini al ristorante se non li si sa tenere», «Qui la gente viene per stare tranquilla, non si debbono portare qui bambini urlanti» e così via. A quel punto non è stato possibile continuare a far finta di niente, mi sono recata nella stanza "delle urla" e ne è nata una discussione accesa e molto sgradevole tra me e la proprietaria, che ci ha portato a lasciare il ristorante dopo aver avuto i primi piatti.
Tutto questo, oltre alla sgradevolezza della situazione, ci è costato 17 euro per ciascun adulto, + bevande. Specifico che i bambini avevano condiviso soltanto un primo piatto.
Ho dovuto inoltre provvedere a scusarmi con i miei amici, colleghi di lavoro tedeschi, ai quali speravo di far passare un pranzo gradevole e in armonia.
Vi segnalo tutto questo, e mi scuso per la lunghezza del messaggio, perché penso che si debba dare più risalto, rispetto a quanto fatto fin ora, al tipo di accoglienza che le osterie/trattorie riservano alle famiglie con bambini. Un bambino urlante in una sala non fa piacere a nessuno, ma sono cose che possono accadere e che solitamente si risolvono nel giro di poco tempo, con un tempestivo intervento dei genitori.
Mi piacerebbe molto che questo tema venisse affrontato pubblicamente perché ritengo molto importante questo argomento.
Non credo che solo perché genitori di bambini che non consumano un pasto intero, dobbiamo essere trattati in questo modo nelle osterie/trattorie/ristoranti: condivido in pieno la vostra posizione sul dilagare del fast food e le cattive abitudini a questo connesso, ma non sarà che tante famiglie portano i loro figli nei fast food, tra mille motivi, anche perché lì trovano un seggiolone e non si debbono vergognare di essere genitori?
Vi ringrazio per l'attenzione e vi saluto cordialmente,
Elena De Angelis

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4/02/2007

Tutto quello che avreste voluto sapere sul socio Slow Food

Il dato più importante che emerge da un nostro sondaggio svoltosi nei mesi di febbraio e marzo è che Slow Food e i suoi soci rappresentano una vera comunità, alla quale si aderisce per convergenza di idee e di obiettivi. I soci hanno recepito e sposato il pensiero riassunto nello slogan «buono, pulito e giusto», comprendendone i concetti e facendoli propri. Il senso di comunità si desume anche dallo strumento principale di conoscenza dell’associazione, che è il passaparola.
Anticipazione dell'editoriale di Slowfood 26 di Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia.


«Chi sono i soci Slow Food?». Questa domanda me l’avranno posta almeno un migliaio di volte nel corso dei miei (ormai) 16 anni di militanza nella nostra associazione. Per rispondere sono sempre andato a pescare nel bagaglio delle mie esperienze personali, maturate in giro per l’Italia, partecipando alle iniziative delle condotte o in occasione delle grandi manifestazioni. Una visione certamente parziale, se non altro per il fatto di prendere a riferimento solo una porzione degli iscritti, quelli che partecipano agli eventi.
Non ho mai assegnato troppo valore all’analisi dei dati che risiedono nei nostri archivi: età, sesso, professione dichiarata, residenza. Poco significativi per le limitate informazioni che forniscono. Poco utili a capire qualcosa in più dei nostri soci, poiché tratteggiano semplicemente un insieme di individui senza identità, senza un volto, senza un minimo indizio che aiuti a capire cosa li accomuni nella loro scelta di associarsi. Il contrario di quello che ho sempre pensato dei soci di Slow Food: gente che sceglie la nostra associazione anche perché è forte della propria identità, con la quale vuole confrontarsi con gli altri, proprio a partire dal piccolo, grande mondo della nostra associazione, che elegge a suo mondo perché vi ritrova alcuni valori che sente suoi.
In effetti, uno dei regali più belli che mi ha fatto Slow Food in tutti questi anni è stata l’opportunità di conoscere una moltitudine di persone, così diverse e spesso così fisicamente lontane tra di loro. Soci che cambiano status sociale, colore della pelle, abbigliamento, gusti, età media, secondo che uno si trovi a New York o ad Alberobello, a Città del Messico o a Perpignan. Ma che cambiano anche solo se ci si sposta da Orbetello a Roma.
Eppure, c’è qualcosa, una sottile linea rossa, che li lega tutti quanti. Fin troppo scontato dire che la liaison è proprio scelta di associarsi a Slow Food. Limitandoci a parlare dell’Italia, oggi annoveriamo condotte attive da oltre vent’anni che sono nate organizzando grandi banchetti e al «buono, pulito e giusto» ci stanno approdando con molta fatica; condotte in cui la radiografia dei soci sembra raccontarci di simpatici gourmet legati soprattutto al piacere di partecipare agli esclusivi eventi organizzati dal fiduciario, spesso solo al comando perché la militanza non appartiene a Slow Food. Al fianco di queste condotte ce ne sono altre, nate in epoca più recente, animate da molti giovani, fortemente motivate dai temi che abbiamo iniziato a servire sulle nostre tavole negli ultimi anni: da Terra Madre alle riflessioni sui modelli di economia locale, passando per gli Orti in condotta e i Mercati della terra.
Il quadro mi appariva dunque piuttosto assortito e, posso confessare, non sempre omogeneo e coerente con quello che ci stavamo spingendo a dibattere e progettare ai vari livelli organizzativi e dirigenti dell’associazione.
Ecco, dunque, che ho accolto con grande piacere (e indubbiamente un po’ di sorpresa) il risultato della ricerca che si è svolta nei mesi di febbraio e marzo, protagonista un significativo campione di soci Slow Food italiani. Intanto perché il 90% degli intervistati si è dichiarato soddisfatto del proprio rapporto con Slow Food, affermando allo stesso tempo di apprezzare il lavoro dell’associazione sia a livello territoriale (è confermato il ruolo fondamentale delle condotte e delle attività che organizzano) sia per quanto la sede nazionale realizza (con grandi attestati di stima per le pubblicazioni e per questa rivista in particolare).
Il dato più importante che emerge, però, è che Slow Food e i suoi soci rappresentano una vera comunità, alla quale si aderisce per convergenza di idee e di obiettivi. I soci hanno recepito e sposato il pensiero riassunto nello slogan «buono, pulito e giusto», comprendendone i concetti e facendoli propri. Il senso di comunità si desume anche dallo strumento principale di conoscenza dell’associazione, che è il passaparola (si diventa soci, nella maggior parte delle situazioni, perché qualcuno che conosciamo ci ha parlato di Slow Food e ne ha parlato con tale enfasi da convincerci). Un risultato, questo, per nulla scontato e straordinariamente importante per convincerci a proseguire con determinazione sulla strada che abbiamo intrapreso negli ultimi anni: la condivisione sempre più ampia e sempre più allargata a livello internazionale dei nostri princìpi, coniugata a una grande autonomia delle nostre condotte nell’interpretarli e tradurli sul loro territorio, all’interno della loro comunità.
La ricerca ci ha anche offerto la risposta migliore a un’altra domanda che ritorna con sempre maggiore frequenza, su come si possa coniugare l’impegno etico, ambientale e sociale, che caratterizza con sempre maggiore forza la filosofia del movimento e le sue attività, con il piacere che sta all’origine del movimento. Sono proprio i soci a dare la risposta più semplice e in effetti più convincente: la grande maggioranza degli intervistati ha motivato la sua adesione a Slow Food con un’adesione ai princìpi e ai valori più alti che l’associazione rappresenta; allo stesso tempo, ha tradotto il senso di appartenenza a questa comunità con il piacere di stare insieme ad altre persone, partecipando alle attività e cogliendo in esse l’occasione per conoscere, imparare, educarsi.
Adesione ideale e piacere materiale si sposano, anzi si fondono, in maniera del tutto naturale. Come abbiamo sempre desiderato che fosse.
State tranquilli, comunque. Non ci siamo montati la testa per il 90% di consensi che abbiamo raccolto. Anzi, la sfida adesso è capire come mai c’è un 10% che, invece, non è soddisfatto. E come possiamo mantenere sempre alta la soddisfazione di quanti ci hanno già premiati. L’impegno è garantito, il vostro aiuto sarà il benvenuto.

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