Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

3/30/2007

Vignerons d’Europe



I viticoltori sono preoccupati per una situazione di mercato che continua, malgrado qualche segno di ripresa, a essere pesante, e per una prospettiva di riforma del sistema degli aiuti economici al settore che a molti è sembrata inaccettabile, in quanto, contraddicendo le sue stesse enunciazioni di principio, pare orientata alla difesa degli interessi dell’industria assai più che a quella dei vignaioli.
Tratto da Slowfood 25. L'articolo è di Maurigio Gily.


A Torino si sono incontrati, in occasione di Terra Madre, una sessantina di viticoltori europei, sotto il titolo “Per un’Europa dei vignerons” allo scopo di avviare una riflessione collettiva sul futuro del vino e della loro professione, alla luce della proposta di riforma del mercato comune presentata dal commissario per l’agricoltura Mariann Fischer Boel in una bozza intitolata “Verso un settore vitivinicolo sostenibile in Europa”. I viticoltori sono preoccupati e decisi a portare, numerosi, la loro preoccupazione in piazza alla prossima Origines du Goût di Montpellier, dal 13 al 16 aprile. A destare allarme sono una situazione di mercato che continua, malgrado qualche segno di ripresa, a essere pesante, e una prospettiva di riforma del sistema degli aiuti economici al settore che a tutti gli intervenuti è sembrata inaccettabile, in quanto, contraddicendo le sue stesse enunciazioni di principio, pare orientata alla difesa degli interessi dell’industria assai più che a quella dei vignaioli.

La bozza Ue
La commissaria sostiene che il modello attuale è insostenibile, ma il concetto di sostenibilità si riferisce qui solo agli aspetti economici, quindi di equilibrio domanda-offerta. Mezzo miliardo di euro è speso ogni anno per interventi sul mercato volti soprattutto a smaltire un vasto surplus di offerta. Si deve andare verso un mercato in equilibrio, investire i soldi (gli stessi soldi, secondo la commissaria, che non propone un taglio di risorse) per aumentare la domanda attraverso una forte comunicazione e ridurre l’offerta estirpando vigneti e diminuendo la produzione, al fine di portare il settore, nel medio-lungo periodo, a un mercato sempre più libero. Fischer Boel sostiene anche che le norme di designazione ed etichettatura sono troppo complicate per affrontare un mercato mondiale in cui le uniche aree di espansione della domanda sono paesi che hanno una scarsa cultura del vino e una conoscenza approssimativa della geografia europea. C’è bisogno, pertanto, di messaggi semplici come quelli proposti dai concorrenti del Nuovo Mondo: il nome del vitigno in luogo dell’origine. I vini a denominazione geografica rimarrebbero quindi a presidiare il solo segmento alto del mercato. Passiamo in rassegna i principali interventi proposti.

Freno all’arricchimento
Premessa: oggi il vino si può arricchire con zucchero nel Nord Europa, e con mosto concentrato rettificato, cioè zucchero prodotto dall’uva, nel Sud, di cui l’Italia fa parte. Il mosto concentrato ha prezzi di mercato superiori allo zucchero, ma le cantine ricevono un contributo per equipararlo. In teoria l’arricchimento andrebbe autorizzato solo in annate sfavorevoli, ma questo non spiega perché sia stato consentito nel 2003, l’annata più calda degli ultimi 150 anni. Secondo la nuova proposta rimarrebbe invece consentito il solo mosto concentrato rettificato, ma da acquistare senza aiuti a prezzo di mercato, e con aumento massimo di un grado alcolico per il Sud Europa e di 2 gradi per il Nord. Oggi i limiti sono più alti. Questo ridurrebbe molto la convenienza di questa pratica, scongiurandone l’abuso che se ne fa oggi a spese della collettività, spingendo i viticoltori meno sensibili a “fare il grado” nel vigneto, migliorando la tecnica e magari riducendo la produzione.
Questa è l’unica proposta che i vignaioli di eccellenza sembrano pronti a sottoscrivere. Alcuni, come Marc Parcé, si spingono a dire che per i vini di terroir, cioè a denominazione d’origine, lo zuccheraggio, sotto qualunque forma, deve essere proibito e basta. In verità la proposta Fischer Boel si scontra sia con veti provenienti dal Nord, da parte di chi vuole continuare a usare lo zucchero, sia dal Sud, perché arricchire a basso costo è assai utile a chi produce vini di qualità corrente e basso prezzo.

Abbandono di ogni forma di sostegno al mercato
Questa parte del provvedimento va letta come distillazione di crisi e, come già detto, aiuti all’arricchimento e allo stoccaggio. I vigneron sostanzialmente concordano sulla fine della distillazione agevolata come è concepita oggi, cioè, troppo spesso, per realizzare comunque un reddito da produzioni che non hanno mercato. Alcuni ritengono, però, che le crisi nel vino siano periodiche e inevitabili, quindi vorrebbero che questa forma di ritiro dal mercato fosse più limitata e sottoposta a maggiori controlli, ma ancora prevista come misura eccezionale.



Espianto con aiuti di 400 000 ettari di vigneto
Il progetto di espianto dovrebbe essere applicato in Europa, il più presto possibile, e prevede misure di prepensionamento per gli agricoltori. Si tratta di misure già attuate in passato, con risultati dubbi e talvolta assurdi, laddove si sono estirpati vigneti di collina ad alta vocazione qualitativa e bassa produttività, mentre sono rimasti vigneti ad alte produzioni magari destinate alla distillazione. Questa proposta è quella che ha sollevato le più alte critiche in Europa e in Italia. I vigneron di Terra Madre hanno sottolineato soprattutto il fatto che, se si estirpano vigneti con aiuti, devono coincidere con quelli che hanno prodotto solo per la distillazione o hanno beneficiato di altri aiuti di mercato (arricchimento).

Superamento, dal 2013, del divieto di nuovi impianti
In Europa attualmente, salvo alcune deroghe limitate e legate ai giovani agricoltori, non è possibile realizzare nuovi vigneti, ma solo sostituire quelli vecchi. Questo blocco opera da circa 25 anni ed è stato concepito per non aumentare l’offerta di vino sul mercato e difendere così il reddito dei produttori. È ovvio che i paesi extraeuropei abbiano approfittato di questa fase per espandere la loro viticoltura ed è altrettanto chiaro che le aziende più forti hanno potuto aggirare il blocco acquistando i “diritti” (il viticoltore che toglie un vigneto senza rinnovarlo può vendere questo “diritto” a terzi). Il blocco dei nuovi vigneti è una legge dura, con pro e contro, che ha sempre sollevato notevoli perplessità e dibattiti. Anche oggi i viticoltori si dividono. L’opinione prevalente sembra quella di spostare questa forma di controllo dell’offerta all’interno delle singole doc, assegnando questo ruolo ai consorzi di tutela o in generale agli organismi di rappresentanza dei produttori. In pratica uno può piantare cosa vuole ma non è obbligatorio concedergli poi l’iscrizione alla doc o docg, se il terreno non è vocato o se il vino è poco richiesto dal mercato.

Uniformazione delle pratiche enologiche a quanto previsto dal codice Oiv
L’Oiv è la cosiddetta Onu del vino, formata da tecnici, che stabilisce in linea di principio quali pratiche siano “oneste” e quali no. Un precedente a tutti noto e, a modesto avviso di chi scrive, malamente enfatizzato, è quello dell’uso dei cosiddetti trucioli. L’Oiv ha dato il nulla osta e la Ue si è affrettata ad ammetterli. Vale il principio che Stati, Regioni e organismi interprofessionali di gestione delle denominazioni (consorzi) possano adottare regole più restrittive. Tanto che in Italia i trucioli sono vietati per i vini a doc e docg per decreto ministeriale. Su questo tema ci sono posizioni diverse. Molti sostengono la n unecessità di un’adeguata informazione del consumatore attraverso una lista degli ingredienti. Secondo Marc Parcé di Séve la normativa per i vini di terroir, a denominazione d’origine, deve distinguersi radicalmente da quella dei vini da tavola, escludendo tutto ciò che non fa parte, appunto, del terroir – arricchimento, trucioli, enzimi, lieviti selezionati altrove, eccetera –, mentre per gli altri vini sarebbe sbagliato porre troppi vincoli: i produttori devono avere libertà di fare in Europa ciò che si fa nel resto del mondo.

Semplificazione della normativa sulla designazione dei vini
Si arriverebbe, in pratica, a due sole categorie: vini con indicazione di origine geografica e senza tale indicazione. Si prospetta l’apertura a indicazioni oggi vietate in etichetta sui vini da tavola: annata e vitigno. Si rileva come criticità europea la proliferazione eccessiva delle denominazioni, e si sottolinea il vantaggio competitivo del Nuovo Mondo sul piano della semplificazione dei messaggi. È uno dei passaggi chiave e forse il più pericoloso. In questo modo sarebbe infatti possibile – se non capiamo o pensiamo male, ma l’olio di oliva insegna che pensar male è bene – produrre vini da mosti importati, anche da fuori Europa, chiamarli ad esempio Nebbiolo e metterci anche l’annata, e aggiungere, infine, “prodotto in Italia” o “nell’Unione Europea”! Se il problema della dispersione in troppe denominazioni è reale e sentito da tutti (meno che da alcuni sindaci e politici locali, instancabili propugnatori di nuove quanto inutili denominazioni) questo rimedio sembra largamente peggiore del male.

Sostanziale conferma del pacchetto finanziario per il settore
I finanziamenti, però, sarebbero indirizzati in modo del tutto diverso. In primis a operazioni di comunicazione, promozione e valorizzazione sui mercati mondiali dei vini europei; in parte a misure strutturali per migliorare la competitività delle imprese; per niente a interventi diretti sul mercato come distillazione e aiuti all’arricchimento, considerati superati.

In conclusione, il testo contiene alcune analisi corrette, ma le soluzioni sembrano confezionate su misura per le esigenze dell’industria e in buona parte contro quelle dei viticoltori. Eppure la prerogativa dell’Europa, rispetto ai paesi concorrenti, è proprio la forte presenza degli agricoltori lungo tutta la filiera del vino. Si argomenta che l’espulsione di contadini dalla terra con i premi all’estirpazione e al prepensionamento possa migliorare i risultati economici di chi resta con un aumento del valore delle uve: ma in realtà tale obiettivo sarebbe vanificato dall’importazione di vino dall’estero, addirittura riciclato come vino europeo. Quindi il rischio paventato di perdita di peso dell’Europa è incoraggiato anziché essere allontanato da queste misure. Occorre, in generale, focalizzare il ragionamento sull’agricoltore e non sul mercato. L’equilibrio del mercato non è un fine ma un mezzo, il fine è la permanenza del viticoltore sul territorio.

L'impaginato dell'articolo lo trovate qui.
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3/29/2007

Difendiamo l'etichetta

Parte oggi la campagna di raccolta firme “Difendiamo l’etichetta, vogliamo conoscere l’origine dei prodotti che mangiamo”, con la quale Slow Food Italia e Coldiretti chiedono ai parlamentari italiani di difendere la legge 204, che obbliga a indicare l’origine geografica (Prodotto in Italia) dei prodotti agroalimentari, dalle nuove disposizioni dell’Unione Europea, volte a eliminare l’origine in etichetta perché considerata ostacolo al libero mercato e alla concorrenza.Abbiamo la sensazione, confermata dalle leggi che vengono approvate (o abrogate), che l'agricoltura non sia più una scelta strategica e, in particolare, la difesa di un'agricoltura di qualità non sia considerata un obiettivo irrinunciabile. Al contrario si tende a ridurre il tutto a termini di mercato, di scambio merci, e l’attenzione del legislatore sembra diretta soltanto alla facilitazione del continuo scambio a tutti i livelli e in tutte le direzioni. In sostanza non si bada più a cosa si produce, si vende e si acquista, ma a come, quanto agevolmente, lo si produce, lo si vende e lo si acquista. Ma la produzione di prodotti alimentari non può sganciarsi dalla sostanza dei prodotti stessi. I prodotti alimentari si definiscono in base alla loro qualità e la loro qualità definisce il livello della nostra salute, della nostra qualità di vita. E’ una partita troppo importante per ridurla a mere azioni di acquisto e vendita.
Firma l’appello, diffondilo e raccogli a tua volta firme a sostegno.

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On fait ce que l’on dit, on dit ce que l’on fait

Terroir, denominazioni e vigneron saranno ancora gli elementi chiave nel futuro della viticoltura europea, i marcatori che manterranno i nostri vini irriproducibili, non replicabili, unici. Ciò non significa che queste nozioni non debbano essere rivisitate criticamente, che non sia necessario ripensarle e aggiornarle.
Tratto da Slowfood 25. L'articolo è di Eugenio Mailer.


Passeggiare per una Provenza dai colori pastello e i tepori primaverili può essere straniante se, allo stesso tempo, le foglie ancora sulle viti e sugli alberi fanno pensare a un mite autunno, mentre il terreno secco e arido e le piante segnate dallo stress idrico ricordano piuttosto la fine dell’estate.
Una sensazione di spaesamento rafforzata dalle chiacchiere dei cacciatori al bar, che raccontano di femmine di cinghiale gravide, completamente fuori stagione. In effetti siamo ai primi di gennaio e io sono qui per parlare della situazione viticola francese con Michel Bonzo, vicepresidente dell’Inao (l’ente francese preposto alla gestione delle denominazioni d’origine) e produttore a Bandol, rinomata Aoc della Provenza mediterranea.

Un aggiornamento necessario
Il tema è la crisi che il mondo del vino sta attraversando, crisi non solo economica ma anche identitaria, e che rende nebulose le prospettive future portandoci a riconsiderare alcuni punti fermi della viticoltura europea: il concetto di terroir, quello di denominazione d’origine e la figura stessa del produttore, in particolare del vigneron.
Terroir, vigneron: parole che prendiamo in prestito dal francese e che utilizziamo quotidianamente per la loro forza simbolica ed evocativa che trascende la difficoltà di definire i concetti medesimi. È in Francia che hanno trovato la loro formalizzazione, ed è forse qui che bisogna tornare per comprenderne a pieno senso e funzione e verificarne l’attualità.
«Resto convinto che terroir, denominazioni e vigneron saranno ancora gli elementi chiave nel futuro della viticoltura europea, i marcatori che manterranno i nostri vini irriproducibili, non replicabili, unici» afferma Michel. «Ciò non significa che queste nozioni non debbano essere rivisitate criticamente, che non sia necessario ripensarle e aggiornarle».
Le denominazioni sono nate in seguito alla grande crisi di inizio Novecento, una crisi di sovrapproduzione causata anche da comportamenti fraudolenti da parte degli imbottigliatori che diluivano i vini con acqua e alteravano la gradazione con lo zuccheraggio. Esse sono state un dispositivo efficace che ha permesso ai produttori di fare fronte a una rivoluzione epocale nei modelli di consumo del vino, che ha visto la sua trasformazione da semplice alimento a elemento di piacere (escludendo quei vini destinati all’aristocrazia e alla grande borghesia che questo statuto già lo possedevano).
La diffusione del produttore che coltiva la vigna, raccoglie le uve, produce, imbottiglia e commercializza il suo vino è, a sua volta, un effetto del sistema delle denominazioni che ha reso il suo vino identificabile con una determinata tipologia, un territorio, un gusto particolare. Senza la denominazione d’origine, questi vini non avrebbero potuto reggere la concorrenza dei prodotti di marca. Le denominazioni hanno anche incoraggiato il miglioramento qualitativo della produzione, la valorizzazione di prodotti conosciuti precedentemente solo a livello locale e quindi, se vogliamo, l’identificazione di nuovi terroir.

La logica delle denominazioni
La discussione si fa complessa e articolata rientrando in cantina, dove comunque fa più freddo che all’aperto. Un ultimo sguardo al paesaggio mi convince che, se le vigne in questa zona sparissero per qualche motivo, la pressione immobiliare generata dal turismo della costa, ad appena quattro chilometri da qui, vomiterebbe su queste terre un incubo di villette con piscina. Bicchiere di rosé alla mano (apparentemente un altro evento fuori stagione, ma in realtà i rosé di Bandol sono vini dalla struttura importante e si bevono tutto l’anno), continuiamo a chiacchierare, e non posso esimermi dal fare qualche considerazione.
Mi sembra di comprendere che la logica delle denominazioni sia moderna, dinamica, basata sulla partecipazione di tutti gli attori della filiera, ed è questa la differenza con le classificazioni storiche di Bordeaux e Bourgogne che invece costruivano una gerarchia rigida, per sua natura aristocratica e quasi immodificabile, cambiamenti climatici esclusi.
Rimane comunque l’insofferenza di molti produttori nei confronti di un sistema che trovano troppo statico, inadeguato al mercato “globale” per operare sul quale è necessario semplificare la comunicazione e rendere immediamente identificabile il prodotto. «Cabernet sauvignon, syrah, merlot, chardonnay e sauvignon sono ormai nomi internazionalmente conosciuti, mentre non si può pretendere un’enciclopedica conoscenza della geografia francese per essere messi in condizione di scegliere una bottiglia di vino» incalzo il mio interlocutore. «D’altro canto, altri produttori sono convinti esattamente del contrario: che l’originalità dei vini francesi – ed europei – vada preservata e che il problema delle denominazioni d’origine sia piuttosto una produzione ormai standardizzata, complice la diffusione di alcune tecniche e tecnologie enologiche che hanno col tempo depauperato un capitale di originalità e tipicità».
Michel condivide le argomentazioni dei secondi, pur riconoscendo la legittimità del discorso dei primi. Oggi all’interno del sistema delle denominazioni queste due attitudini convivono in un incerto equilibrio, quasi a incastro, che porta alla paralisi e alla perdita di significato, restando incomprensibile per i consumatori. In questo senso, esiste un’esigenza di maggiore chiarezza. «Ciò non deve essere confuso con una semplificazione a favore delle doc regionali» riprende «che svilirebbe il senso stesso della denominazione riducendola a una generica indicazione geografica. Si tratta piuttosto della necessità di una maggiore trasparenza sulle pratiche viticole ed enologiche da seguire, pratiche che giustifichino e legittimino la degna nozione di terroir che ogni doc dovrebbe sottintendere».

Una questione complessa
Si ripropone la felice intuizione di Réneé Renou, presidente dell’Inao, purtroppo recentemente deceduto, che potremmo riassumere in una sua frase: «On fait ce que l’on dit, on dit ce que l’on fait» (facciamo quello che diciamo e diciamo quello che facciamo), assunto che nella sua semplicità centra il cuore del problema e mostra che una soluzione è possibile. Occorre uscire dall’ipocrisia e dall’ambiguità, rivendicare la libertà di scelta di ogni produttore, a condizione appunto di dire ciò che si fa, e di fare ciò che si dice.
La questione resta ovviamente complessa. Le 470 Aoc francesi non sono omogenee tra loro: troppo differenti per grandezza, rigore dei disciplinari, spirito collettivo dei produttori che ne fanno parte, definizione geografica, tecniche enologiche ammesse.
Secondo Renée Renou, Michel Bonzo e altri, la soluzione consisterebbe in un sistema di denominazioni d’origine d’eccellenza, con disciplinari più precisi, una reale dinamica collettiva tra i produttori, una nozione chiara e comune del vino che si vuole produrre, nel rispetto delle caratteristiche del terroir. «Solo le doc che potranno garantire una produzione di alto profilo qualitativo, con identità e tipicità ben definite, potranno fregiarsi di questa denominazione d’eccellenza a condizione, ovviamente, di adeguare il disciplinare in maniera da garantire l’originalità e la tipicità dei vini e la sostenibilità ambientale della produzione» ci dice ancora il nostro ospite.
In questo modo, secondo Bonzo, la viticoltura francese ed europea potrà preservare le caratteristiche proprie salvaguardando l’esistenza del personaggio chiave, il vigneron, questo contadino che in fondo è anche un po’ imprenditore, a volte artista e uomo di marketing, figura profondamente moderna, capace di guadagnarsi un’aura di classicità, un “intellettuale della terra” che rivendica il proprio ruolo e senza il quale le nozioni di origine e terroir non avrebbero alcun senso.
La discussione con Michel potrebbe continuare per ore, ma mi sembra di avere approfittato già troppo della sua disponibilità e il materiale su cui riflettere abbonda. Un tramonto da cartolina mi avvolge, la temperatura è mite, e mi ritrovo ad attendere che si alzi il mistral a riportare l’inverno.

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3/27/2007

Il valore delle denominazioni

L’editoriale di Gigi Piumatti su Slowine 25.
La richiesta da parte degli industriali del vino dell’igt Italia (sulla quale non concordiamo), unitamente al nullaosta all’uso dei trucioli, pare che abbia acuito in modo irreversibile la spaccatura tra i vigneron e i produttori che fanno grandi numeri. I primi si sentono sempre più schiacciati da una legislazione europea che sta cambiando secondo logiche più produttivistiche che qualitative, oltre che da un’industria aggressiva nel vendere i propri prodotti facendo sfoggio di termini quali terroir e tradizione.




Aprile è per noi un mese ricco di iniziative vinose. Si comincia con Vinitaly per proseguire dritti verso Montpellier, sede del più importante appuntamento legato al mondo del vino targato Slow Food in questo 2007: la due giorni di Vignerons d’Europe il 14 e il 15 aprile. L’importante manifestazione di Verona pare non subire flessioni e non sentire i suoi 41 anni di età. Gli addetti ai lavori si avvicinano ai padiglioni della Fiera carichi di domande sul futuro del vino: il primo quesito che ci si pone, guardano il calendario del nuovo anno, è se tutte queste fiere italiane ed europee mantengano un ruolo di effettiva importanza per i produttori. Oltre al Vinitaly, infatti, ci saranno anche il Vinexpo di Bordeaux e il Salone del Vino a Torino, mentre è appena andata in archivio la Prowein di Düsseldorf. Visti gli alti costi di questi eventi, saranno certamente poche le aziende che decideranno di fare l’en plein partecipando a tutte le manifestazioni. Infatti, frequentando quotidianamente il mondo della produzione, ci si accorge di un mutato rapporto con il mondo della distribuzione e della vendita. I canali tradizionali si vedono affiancati da nuove strade battute dai produttori per promuovere i loro prodotti: vendita diretta in cantina, enoturismo, fiere di paese, gruppi di acquisto e perfino una rinnovata richiesta di vino sfuso.
Il consumatore rischia, allora, di trovarsi disorientato di fronte a questo quadro sempre più complesso, nel quale si inserisce anche la progressiva perdita di valore delle denominazioni di origine, altro punto molto controverso in questi tempi. Uno dei motivi che possono spiegare questo fenomeno è certamente l’eccessivo proliferare delle stesse, con un aumento esponenziale del numero non solo delle doc, ma anche delle docg, che dovrebbero premiare esclusivamente vini di altissimo livello e, di conseguenza, riuscire a spuntare sul mercato prezzi più elevati. Non ha senso, infatti, caricare i produttori di maggiori laccioli, ad esempio diminuendo le rese in vigna, per poi vedere sugli scaffali dei supermercati europei bottiglie di grandi denominazioni svendute per pochi euro. E non concordo neppure con la richiesta da parte di alcune associazioni di categoria di istituire l’igt Italia. Sarebbe controproducente: i consumatori meno attenti attribuirebbero all’indicazione geografica un valore più alto rispetto a quello che ha in realtà, e i commercianti e vinificatori meno onesti potrebbero fare il bello e il cattivo tempo in presenza di una legislazione generica e poco restrittiva. Oltre a questo, si svilirebbe il valore del nome Italia, forse il traino di maggior valore per le nostre esportazioni, con il risultato che tutti i vini del Bel Paese rischierebbero di fare una gran brutta figura: tra l’altro, proprio ora che negli Stati Uniti il valore delle esportazioni delle nostre bottiglie ha superato il traguardo del miliardo di euro, sopravanzando di gran lunga i vicini transalpini. Ad avvalorare questa tesi, che mira a stringere sempre di più le maglie della legislazione produttiva e a evitare la nascita dell’igt Italia, è l’aumento delle importazioni di sfuso a bassissimo costo nel nostro paese. In pochi anni sono entrati in Italia svariati milioni di euro di mosto proveniente perfino dalla California, imbottigliati sul nostro suolo e rivenduti in tutto il mondo. Tutto questo per presunti vantaggi tariffari e per i nostri bassi costi di imbottigliamento.
Come vedete, le premesse non sono certo delle più rosee, se già ora siamo al centro di traffici di mosti che fanno il giro del globo per far perdere le proprie tracce ed eludere i controlli più elementari.
La richiesta da parte degli industriali del vino dell’igt Italia, unitamente al nullaosta all’uso dei trucioli, pare che abbia acuito in modo irreversibile la spaccatura tra i vigneron e i produttori che fanno grandi numeri. I primi si sentono sempre più schiacciati da una legislazione europea che sta cambiando secondo logiche più produttivistiche che qualitative, oltre che da un’industria aggressiva nel vendere i propri prodotti facendo sfoggio di termini quali terroir e tradizione. Per tutti questi motivi il 14 e il 15 aprile si svolgerà a Montpellier Vignerons d’Europe. Un evento che coinvolgerà 1000 viticoltori provenienti da tutti i paesi del Vecchio Continente, i quali confluiranno nella città francese per discutere della riforma Ocm europea e per confrontarsi sulla figura del vigneron. Come si fa a essere sostenibili in vigna e allo stesso tempo riuscire a stare sul mercato vendendo a un prezzo equo le bottiglie prodotte? Vignerons d’Europe avrà il compito di rispondere a questa e a tante altre domande.

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3/26/2007

Slowfood 25 on-line

Slowfood 25 da oggi è anche on-line.
Qui, trovate i link ai pdf dell’intero impaginato: basta ciccare sui titoli del sommario e avrete l’intera rivista a vostra disposizione.

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3/23/2007

Gastronomi vecchio stile? No, grazie

Piero Sardo interviene su Slowfood 25, e anticipa alcuni temi del prossimo Slow Fish. L'illustrazione è di PAsquale Todisco (Squaz).

Sabato 23 dicembre, al tramonto, una barca di pescatori è salpata dal porto di Comacchio verso il largo, fuori delle Valli. Sulla barca il presidente del Parco del Delta del Po, Valter Zago, il sottosegretario del Ministero dell’Agricoltura Guido Tampieri, il presidente di Slow Food Emilia, Alberto Fabbri, il professor Stefano Cataudella, membro del comitato scientifico di Slow Fish, e altre personalità scientifiche e istituzionali. Il gruppo non andava a celebrare in mare la vigilia di Natale, ma a compiere un gesto fortemente simbolico: liberare in acque aperte 200 chili di anguille o, meglio, di capitoni, gli animali più maturi, pronti per il ritorno nel mar dei Sargassi per riprodursi. Catturati nei lavorieri dell’azienda Valli, ora gestita dal Parco e diventata Presidio Slow Food, invece di finire arrostiti alle braci e marinati, si sono trovati in mare aperto.
Questo perché, come forse ben sapete, la situazione degli stock di anguille è drammatica. Si assiste ormai da anni a un calo costante e sensibile nei quantitativi di avanotti che arrivano alle acque dolci dal mare e, conseguentemente, della loro pesca: e questo succede in ogni parte del mondo. La causa di questa situazione è da addebitare in buona parte alla presenza nei mari orientali di un parassita che attacca le anguille e le uccide, un parassita che è ancora assente in Europa. Qui da noi opera, però, un morbo peggiore, l’uomo. L’uomo cui è ancora consentito pescare le ceche (gli avanotti dell’anguilla) come in Francia e in Spagna; l’uomo che esercita una pressione di pesca eccessiva, praticando anche il bracconaggio, cioè la pesca al di fuori dei periodi consentiti; l’uomo che utilizza strumenti di cattura che non concedono possibilità di scampo agli animali che risalgono i fiumi o le lagune.
Così, stando ai dati elaborati dalla Commissione europea, siamo arrivati all’1% del “reclutamento” – questa terminologia ufficiale è commovente per quanto vuol essere neutra e poco allarmistica: reclutamento vuol dire le quantità catturate, uccise e commercializzate o mangiate! – di animali rispetto alle quantità storiche. Ora la Commissione ha deciso di intervenire con vari provvedimenti, tra i quali il ripopolamento. Ma è chiaro che tra il dire e il fare ce ne corre, soprattutto in questo caso, laddove i capitoni hanno sul mercato un valore assai rilevante.

La nostra campagna
Ebbene, 200 chili sono tornati liberi e si spera che altri – il doppio (?), il triplo (?) – rientrino nelle Valli nei prossimi anni. Sempre che i cecchini franco-spagnoli lascino transitare qualche banco di avanotti. Tutto questo si ricollega al manifesto della campagna “Mangiamoli giusti”, un manifesto che lancia un allarme e che ci richiama a gesti simbolici: non abbiamo l’autorità per imporre un divieto legale al consumo di pesci sotto taglia, anche se sono certo che tra non molto tempo si arriverà a questa interdizione assoluta, di pesca e di consumo, per legge. Ma abbiamo il dovere di sensibilizzare tanto chi è socio di Slow Food quanto chi ci segue e crede nei progetti che portiamo avanti. Possiamo compiere gesti simbolici importanti, dobbiamo farlo. Mi pare già di sentire le sbuffate di Stefano Bonilli – e dei molti che la pensano come lui – che sul suo blog ironizza infastidito sui mille altolà che arrivano da più parti: «basta tonno rosso!», «stop ai bianchetti!», «il foie gras non è eticamente corretto!», «il caviale finanzia la mafia!», e così via. Bonilli sostiene che di questo passo si riducono gli spazi di libertà e crolla il piacere gastronomico. Che comportamenti simili, semmai, devono essere frutto di scelte individuali e sensibilità specifiche, non di divieti o intimidazioni. Sono argomentazioni di un gastronomo vecchio stile che, come andiamo ripetendo da anni, per natura – direi per definizione – è egoista.
Noi non siamo più gastronomi tout court, o mi sbaglio? Allora dobbiamo sottoscrivere il manifesto, farlo conoscere e cominciare a compiere gesti simbolici: al piatto di bianchetti appena sbollentati conditi con un filo di olio nuovo, che il ristoratore vigliaccamente ci porta al tavolo senza preavviso, dire: «No, grazie». Magari asciugandoci le lacrime e deglutendo saliva. «No, grazie». Ne saremo capaci?

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3/22/2007

Il sommario di Slowfood 25

Eccovi i principali temi di Slowfood 25, in uscita in questi giorni, con ampio risalto dato a Slowine.

Terrestri
Continua il viaggio insieme alle comunità del cibo presenti a Terra Madre. Questa volta i giornalisti e i fotografi dell’agenzia Pho-to incontrano i membri delle comunità israeliane e palestinesi, produttori di olio e pasta.

La rete delle comunità
Siamo sui bulgari monti Rodopi, nell’alta valle dell’Arda, luogo di natura ancora incontaminata, dove è stato da poco inaugurato un nuovo convivium Slow Food. Incontriamo, qui, i produttori di fagioli, protagonisti da alcuni anni di un noto festival locale.

Cronache da una catastrofe
Elizabeth Kolbert, autrice di Cronache da una catastrofe, recentemente pubblicato in Italia, e giornalista su testate quali The New Yorker, New York Times, Vogue, The New York Times Magazine e The Los Angeles Times ci ha omaggiati di un articolo sconvolgente, pubblicato lo scorso anno negli Usa, ma ancora estremamente attuale per come analizza il problema ambiente. Si parla di Louisiana, New Orleans e Katrina.

Slow Fish
Prima anticipazione dedicata al “Salone del pesce sostenibile” a Genova dal 4 al 7 maggio. Iniziamo col raccontarvi quali sono gli intenti che Slow Food si propone in merito, quali le principali novità inerenti alle comunità del cibo e ai Presìdi presenti, nonché al settore educazione. Inoltre, Piero Sardo anticipa l’uscita della campagna, “Mangiamoli giusti”, che sarà lanciata proprio nei giorni della manifestazione genovese, ai fini di tutelare la biodiversità ittica attraverso un consumo responsabile.

Diario di viaggio
I viaggi di Bennett alla ricerca di espressioni musicali tradizionali ci portano questa volta sulle Alpi svizzere, dove in pochi praticano ancora il natuur juuz, che un tempo era il canto di lavoro dei montanari svizzeri.

Arte
Sculture e installazioni di zucchero, torrone e cioccolato, ma anche di pesci e di semi, contaddistinguono l’avventura artistica di Aldo Mondino, iniziata nei primi anni Settanta.

Slow Food University/La ricerca
La rubrica Slow Food University si propone in una nuova veste, concedendo spazio alle ricerche effettuate dagli studenti, concretatesi nelle prime tesi. Gli articoli di questo numero si focalizzano sul tema dei farmers’ markets, da Taranto ad Halifax.

Di terra e di rezdore
Lo scorso anno Slow Food, in collaborazione con a Provincia di Modena, ha intervistato circa 160 anziani del Modenese, legati per professione al cibo e al territorio e depositari di antiche tecniche a rischio d’estinzione. Il risultato finale di questo intenso lavoro è pubblicato su un dvd, Storie di terra e di rezdore, presentato allo scorso Salone del Gusto.

Slowine

Vignerons d’Europe
Nei giorni di Vinitaly si anticiperà la manifestazione “Vignerons d’Europe”, che si svolgerà a Montpellier dal 14 al 15 aprile. In quell’occasione si riuniranno 1000 produttori per gli stati generali della viticoltura europea, allo scopo di ribadire la centralità della pratica viticola, del territorio e delle denominazioni. Tra gli articoli che pubblichiamo per presentare l’evento, uno di essi si focalizza sulla proposta della commissaria Ue Fischer Boel, elaborata per ridare una posizione centrale al mercato vinicolo europeo, ma orientata più alla difesa degli interessi dell’industria che di quelli dei vignaioli. Oggetto di discussione è anche l’attuale sistema delle denominazioni, per le quali si richiedono disciplinari più precisi rispetto agli attuali al fine di rendere l’Europa più competitiva. Infine, un articolo su Alan Limmer, vigneron neozelandese, pioniere di Gimblett Gravels nella Hawke’s Bay.

Uva Longanesi
La nostra analisi dei vitigni autoctoni italiani ci porta, questa volta, nel Ravennate, dove il vitigno Longanesi (alla base dei vini Bursôn Etichetta Nera ed Etichetta Blu) deve il suo nome a colui che lo scoprì negli anni Cinquanta del secolo scorso.

Biotecnologie
Le micotossine sono funghi, presenti in molti alimenti di origine vegetale, produttori di veri e propri veleni. Secondo una recente stima della Fao il 25% della produzione agricola mondiale ne sarebbe contaminato, con perdite annue di 920 milioni di dollari negli Usa e 44 milioni di euro in Italia. Una di esse, la Ota A, è particolarmente diffusa nelle uve e nei vini. Ne parliamo con Stefania Tegli, ricercatrice di Firenze, la quale ha effettuato esperimenti sul Vin Santo alla ricerca di rimedi che la degradino, senza atti intrusivi nei confronti del prodotto.

Cirò
L’itinerario vinicolo del mese ci porta in Calabria, ad assaggiare un vino dalla forte impronta marina, il Cirò Classico, che tra gli aspetti di maggior pregio, vanta un ottimo rapporto tra qualità e prezzo.

La fatina clandestina
Siamo in Val Maira, per incontrare un produttore artigianale di assenzio e confrontarci con lui sui metodi di produzione e i tanti pregiudizi e falsi miti che ancora circondano la fatina verde.

Extravergini
Gli italiani sono ancora troppo poco informati sugli oli alimentari. Secondo un’indagine recente solo il 13% dei nostri connazionali è veramente informato, il 34% risulta discretamente competente, mentre il 46% ha qualche idea giusta in mezzo a un gran numero di convinzioni inesatte, pregiudizi e storture. Il restante 7% non ne sa nulla. Proponiamo un breve viaggio attraverso le dop italiane.

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3/20/2007

Slowfood 25

Eccovi la storia di copertina di Slowfood 25, in uscita fra pochi giorni. Ovviamente vino, Vinitaly e Vignerons d’Europe la fanno da padroni.

Terra, terriccio, terreno, territorio: l’italiano non ha parole per descrivere in modo esaustivo quel che ai francesi basta in un sussurro, terroir. Che dice tutto e non lo si può dire meglio. Ai cugini d’Oltralpe, poi, invidiamo anche un’altra parola, che dice più di viticoltore o vignaiolo, ed è l’ultimo dazio che paghiamo all’aristocrazia enologica dell’hexagone. Intorno a questa parola, vigneron, Slow Food sta imbastendo uno dei momenti più importanti della sua storia enoica, o meglio della sua storia tout court se si considera quanto il vino sia stato incipit a un movimento che vent’anni fa non aveva pressoché altro. Vignerons d’Europe s’intitola il grande momento di confronto che si terrà il 14-15 aprile a Montpellier, dove si riuniranno mille produttori per ridisegnare i contorni della figura del vigneron e per porre al centro le pratiche sostenibili di vigna ribadendone il primato rispetto alle tecniche di cantina. Se ne parla abbondantemente in Slowine, e se ne parlerà altrettanto nei giorni di Vinitaly, ormai alle porte, dove sul vino storicamente ci si interroga, se ne discute e poi si finisce a tavola per festeggiare.
Buoni brindisi, dunque, a Verona! E non dimentichiamo il piacere della convivialità, che il meraviglioso fotogramma tratto da Macaroni di Ettore Scola vuole evocare. Ma con occhi, naso e testa vispi e vigili, ché la proposta di Mariann Fischer Boel non sembra pensata per tutelare terroir e vignerons d’Europa.
Alessandro Monchiero

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3/15/2007

Ready-made food

Firme di critici autorevoli e scatti di Fabrizio Garghetti, fotografo milanese specializzato nel reportage e nell’organizzazione di eventi artistici, dal cui sterminato archivio pescò a suo tempo anche Gianni Sassi, nella realizzazione de La Gola: iniziamo con Slowfood 24 una nuova rubrica, che racconterà di mostre e personaggi, di eat art e sperimentazioni artistiche intorno al mondo del cibo. L’articolo è di Gianluca Ranzi.

«Wenn alle Kunste unterghen, die elde Kochkunst bleibte bestehn»
«Anche quando tutte le arti collassano, la nobile arte della cucina rimane al suo posto»

Daniel Spoerri



Nel 1970, durante una notte insonne a New York, un’idea improvvisa balenò alla mente di Daniel Spoerri: la Venere di Milo, invece che di marmo, avrebbe benissimo potuto essere fatta di sale, e nessuno avrebbe notato la differenza.
Pochi mesi più tardi, partendo da questo sorprendente assunto, riunì alcuni amici artisti intorno al progetto di realizzare opere d’arte, edizioni e perfino intere mostre completamente edibili, consumabili e immancabilmente deperibili. Spoerri, con già alle spalle il lavoro di un decennio sul significato simbolico e rituale del cibo, sulla deperibilità e sulla casualità dell’agire umano e, in ultima analisi, sul tema generale della sopravvivenza della specie, inventava e codificava in quella occasione la sigla del suo operare artistico, il nome della sua personalissima gastrosofia: Eat Art, l’arte da mangiare, l’arte da consumare come su un menù, l’arte che diviene cibo e il cibo che diviene arte, trasformando la galleria, da tempio immacolato dell’arte, a ristorante e bar, proprio come quello che l’artista stesso aprì a Düsseldorf nel giugno del 1968.
Una tale ricerca tanto focalizzata sugli usi sociali del cibo, sulle aspettative e sulle disillusioni di cui esso è da sempre spia non poteva passare inosservata a Slow Food, che ha già dedicato in passato alcuni interventi al genio di uno dei massimi artisti della seconda metà del XX secolo. Oggi una grande mostra antologica al museo Pecci di Prato ripercorre le tappe del percorso creativo dell’artista (“Daniel Spoerri: non solo per caso”, dal 3 febbraio al 29 aprile 2007), offrendo una straordinaria occasione per valutare il fortissimo impatto che il suo lavoro ebbe su tutto il sistema dell’arte contemporanea.

Un ribaltamento paradossale
Quella di Spoerri fu una rivoluzione copernicana che colpì tutti e scandalizzò alcuni, un’operazione che si inseriva del resto in un momento storico-artistico che si dirigeva da più parti verso la desacralizzazione antiretorica dell’arte alla ricerca di un territorio d’azione più ampio e più vicino alla sfera effimera della realtà quotidiana, all’instintualità naturale, al vissuto esistenziale dell’uomo. In questa direzione spingevano, infatti, le performance del gruppo Fluxus, il nuovo umanesimo teorizzato da Joseph Beuys, gli happening di Allan Kaprow, la calata nel quotidiano di Andy Warhol, le teorie del Nouveau Réalisme: tutti ambiti che in qualche modo, per qualche momento, con maggiore o minore intensità, si intrecciarono all’attività artistica di Spoerri.
Fare del cibo e della sua consumazione non soltanto il soggetto ma il vero e proprio oggetto dell’arte, significò lasciarsi alle spalle e superare di colpo tutta la tradizione pittorica legata alle nature morte dalle origini della pittura fino a Picasso, dando spazio a un’inedita formula di operazione creativa e di oggetti d’arte che non sono una semplice copia della realtà, ma sono, secondo lo spirito del Nouveau Réalisme, la realtà stessa.
Riunirsi intorno a una tavola segna ritualisticamente i momenti fondamentali dell’arco vitale delle persone, dai matrimoni ai wakes, dai pranzi d’affari agli eventi di famiglia, ma l’atto quotidiano, “banale” e ripetitivo del sedersi a tavola di ogni giorno, dalla colazione alla cena, ha tuttavia la straordinaria importanza di rendere possibile la funzione primaria del nutrirsi, volta alla sopravvivenza e alla continuazione della specie. Offrire allo spettatore la possibilità di considerare se stesso in relazione a uno degli atti basici dell’esistenza, di quelli che vengono abitualmente esplicati senza farci troppo caso, ha per Spoerri il fine di allargare la cognizione del presente e delle relazioni quotidiane che tutti noi intratteniamo nel nostro ambiente di riferimento, ha il valore di una presa di coscienza sul senso della vita e sull’essenza stessa dell’arte.
Il procedimento attraverso cui Spoerri fa passare questa presa di coscienza è quello di un ribaltamento paradossale, concettuale e fisico. Così come Marcel Duchamp annullando l’aspetto funzionale dei suoi ready-made, faceva diventare un orinatoio di ceramica una fontana o una ruota di bicicletta una scultura “spostandone” il senso e la disposizione nello spazio, anche Spoerri annulla, spiazza e sposta facendo diventare opera d’arte vere tavole su cui si sono appena consumati un pranzo o una cena da lui stesso predisposti. Dopo avere, infatti, incollato meticolosamente tutto ciò che vi è poggiato sopra, stoviglie, posate, bicchieri, portacenere, mozziconi di sigaretta, vasi, fiori, avanzi di cibo, tovaglioli e oggetti vari sono intrappolati sulla tavola nello stesso identico stato o posizione in cui li lasciano i commensali. Spoerri opera così quel passaggio fondamentale che gli permette di slittare dalla cronaca particolare della cena al tempo lungo della storia, dall’effimero, che tanta parte ha nella sua arte e nella nostra vita, alla durata. Lo spiazzamento è completo: egli ribalta la tavola e la appende al muro della galleria, conferendo all’oggetto dignità d’arte. Come ha sostenuto: «Non è forse vero che una galleria d’arte che vende prodotti da drogheria cessa di essere tale e diviene drogheria a tutti gli effetti? E un pomodoro non può forse cessare di essere un ortaggio perché lo dichiariamo essere un’opera d’arte?».
I quadri divengono così quadri-trappola: sono tableaux-piège che catturano, fissano e rendono eterne le minime pieghe d’esistenza e di realtà che si è appena svolta sopra di loro quando ancora, nel mondo degli uomini, svolgevano la funzione di tavole su cui desinare. Spoerri ha dichiarato di essere stato sempre affascinato dal gioco di mutazioni, spostamenti e riassestamenti che avviene su una tavola durante una cena. È un luogo in cui domina la legge della casualità e dove le nostre abitudini e i nostri bisogni prevalgono sul nostro modo razionale di pensare e di organizzare gli oggetti su una normale superficie. Difficilmente nell’arte contemporanea la distanza tra effimero ed eterno si è fatta così sottile come nei suoi quadri trappola: il gesto dell’artista interviene a bloccare per sempre i resti di un pasto su una tavola, ma il suo intervento trascina con sé e preserva come in un amalgama di ambra fossile anche i gesti, i rapporti e le convenzioni di chi vi era seduto. In un mirabolante gioco di rimandi e di rispecchiamenti consecutivi il lavoro di Spoerri ha da sempre giocato sul ruolo attivo, verrebbe da dire creativo, del pubblico, preso e sorpreso dal Witz del suo vortice di trovate.

Bistecche di manzo e menù esotici
Insieme alla sua attività di artista-ristoratore e proprietario della galleria Eat Art, egli è stato infatti anche l’organizzatore di indimenticabili eventi culinari, come la storica “Ultima cena” indetta a Milano nel 1970 per il decimo anniversario della nascita del Nouveau Réalisme o come il banchetto alla rovescia in cui i commensali erano indotti a pensare di cominciare dal dessert e finire con la pastasciutta, per scoprire in realtà che il gelato era fatto di patate schiacciate e gli spaghetti al pomodoro erano fili di purè di castagne “conditi” con coulis di lamponi a cui i solerti camerieri aggiungevano cioccolato bianco grattugiato come fosse parmigiano reggiano.
Gli avventori del suo ristorante, oltre a deliziarsi con le famose bistecche per cui era diventato famoso in tutta Düsseldorf, potevano del resto anche avventurarsi nel famigerato “menù esotico” che comprendeva omelette di formiche grigliate, stufato di pitone, bistecca di proboscide di elefante, feto di gallina e zampa d’orso. Gli avventori potevano scegliere in libertà, Spoerri non li spingeva mai verso tali inappetibili specialità: egli infatti riteneva che uno stimolo puramente intellettuale bastava perché il suo “pubblico” si rendesse conto del proprio costume alimentare e delle convenzioni ad esso legate e come egli stesso ricorda: «Le persone si comportavano come se avessero veramente potuto ordinare quei piatti e un brivido lungo la schiena le percorreva quando finivano per ordinare una semplice bistecca di manzo».

Con le gambe all’aria
La sua riflessione, partendo dagli aspetti vernacolari del vivere quotidiano e del cibo, dalla passione per lo studio antropologico sull’alimentazione umana e sui suoi riflessi sociali, dalla pratica reale della cucina e dalla preparazione di grandi eventi-banchetto, si è svolta così in una considerazione complessiva ben più ampia sulle leggi del caso che governano l’agire umano, sulla precarietà e sulla natura illusoria dell’esistenza e sul delicatissimo gioco di contrappassi e rispecchiamenti che creano inaspettati squarci di senso nel gioco ineluttabile dell’affermazione e dell’annullamento dell’esistenza. Immaginare, intrappolare il caso, metaforizzare il reale, sintetizzare e fondere gli elementi, rappresentare le pulsioni fondamentali dell’essere umano significa trattare in presa diretta con la vita e la morte, mostrando il vincolo inestricabile e paradossale tra Eros e Thanatos: in questo modo le opere di Spoerri continuano a parlare la lingua degli uomini al di là di ogni preclusione e il loro nomadismo le rende contenuto e contenitore per le infinite storie che ancora amiamo raccontarci seduti e ignari intorno a una tavola, prima che il gesto sorprendente dell’artista la mandi per sempre a gambe all’aria.

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3/12/2007

Si fa presto a dir toscani

In alcune aree poco abitate, storicamente isolate ed economicamente marginali resistono – come spesso accade – tecniche di lavorazione antiche. Siamo in Garfagnana e nel Casentino, sull’Appennino tosco-romagnolo.
Alcune famiglie di norcini lavorano le cosce di maiali allevati localmente e alimentati in modo naturale. Poi, ogni luogo ha la sua tradizione: c’è chi pressa le carni, chi le condisce con aglio e vino, chi le spezia con il peperoncino, chi le affumica…
Tratto da Slowfood 24. L'articolo è di Paola Nano.


Parlare semplicemente di prosciutto toscano è un po’ generico e, senza voler togliere nulla alla maggior parte della produzione regionale – peraltro tutelata da una dop dal 1996 –, significa sminuire e confondere in una massa di prodotti perlopiù omologati alcune delle realtà più interessanti e qualitativamente rilevanti della norcineria italiana.
Se il legame con il territorio è parte determinante delle specificità di un prodotto, nel caso dei Presìdi toscani dedicati a due particolari prosciutti, questo aspetto diventa inequivocabile.
I progetti in questione sono il prosciutto bazzone della Garfagnana e il prosciutto del Casentino, entrambi legati a territori collinari, se non montuosi, situati al confine con l’Appennino e spesso difficili da raggiungere, soprattutto nelle parti boschive e più impervie. Forse proprio a queste condizioni ambientali così particolari va ricondotta l’unicità dei due prodotti.

Dalla Garfagnana
In Garfagnana, nella media valle del Serchio, tra le Alpi Apuane e l’Appennino tosco-emiliano, i boschi di castagni e faggi hanno visto da sempre la presenza allo stato semibrado dei maiali, allevati dalle famiglie contadine per il consumo interno e nutriti oltre che con castagne e altri prodotti del sottobosco – mele e pere selvatiche – anche con farina di crusca, di farro (il cereale garfagnino più tradizionale) e con la scotta, ovvero il liquido residuo della lavorazione del formaggio. Un’alimentazione completamente naturale quindi, per una tipologia di suini ottenuta dall’incrocio tra cinta senese e large white, le due razze più diffuse in queste zone; un’unione che mette insieme rusticità, adattabilità alla vita all’aria aperta e capacità di raggiungere dimensioni considerevoli. Queste caratteristiche stanno alla base della specificità del bazzone, sia per il peso del prodotto finale (che arriva anche a 16-18 chili) sia per il risultato qualitativo e organolettico.
Chiamato così perché alla vista ricorda il bazzo, parola usata nel dialetto locale per indicare un mento molto pronunciato, il prosciutto bazzone si ottiene dalla lavorazione di suini macellati intorno ai 15 mesi di età (gran parte dei quali trascorsi all’aperto), a un peso di circa 180-200 chili.
La coscia, una volta rifilata, è dapprima massaggiata e cosparsa di una pasta di aglio schiacciato e vino e poi condita con sale marino, pepe, erbe aromatiche locali e spezie. Dopo circa 20 giorni il prosciutto deve essere lavato, asciugato e ricoperto da uno strato sottile di strutto e pepe che ne preserverà la morbidezza durante la stagionatura in cantine naturali, prive di qualsiasi tipo di condizionamento. Il disciplinare adottato dai produttori del Presidio prevede un tempo di stagionatura non inferiore ai 18 mesi, anche in relazione alle dimensioni del prodotto, ma i risultati migliori si ottengono verso i tre anni di età.

Al Casentino
Spostandoci in provincia di Arezzo, nella valle superiore dell’Arno, alle pendici del monte Falterona nel cuore dell’Appennino tosco-romagnolo, arriviamo in Casentino. Anche qui, come nella Garfagnana, castagneti, faggeti e boschi di querce e abeti bianchi dominano la parte di territorio tutelata dal Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, l’habitat ideale per l’allevamento brado dei maiali, che fornivano la materia prima per la produzione di prosciutti e altri prodotti di norcineria già nel 1700. Documenti storici provano, infatti, che il Casentino sia rinomato da almeno tre secoli per l’eccellenza delle carni di maiale salate e per gli aromi e i gusti unici conferiti ai salumi dal clima, dalle particolari tecniche di salatura e dalla stagionatura nei camini alimentati da legna di olivo, alloro e ginepro. Si tratta dunque di una tradizione produttiva diversa rispetto a quella del bazzone: meno legata alla sopravvivenza familiare e contadina e caratterizzata da un processo di lavorazione più raffinato e laborioso. Qui, la presenza di suini di colore scuro, i famosi “grigi casentinesi”, deriva non solo dall’incrocio tra cinta senese e large white ma anche, per la vicinanza con la Romagna, da quello tra large white e mora romagnola, altra razza autoctona di grande pregio (oggetto di un Presidio in Emilia Romagna). Gli animali sono allevati allo stato brado, in un territorio capace di fornire ghiande e castagne in abbondanza. I capi sono macellati a non meno di 14 mesi di età e quando hanno raggiunto un peso minimo di 150 chili.
Secondo il disciplinare del Presidio, la lavorazione del prosciutto del Casentino prevede due cicli di salagione con una mistura di sale marino, aglio, bacche di ginepro, pepe e altre spezie tradizionali, in base alla ricetta di ciascun norcino. Dopo circa 30 giorni il prosciutto, lavato e spazzolato, inizia la prima fase di asciugatura (di 10 mesi), al termine della quale si effettua una vera e propria stuccatura con sugna fresca, sale e spezie. Il periodo complessivo di stagionatura non può essere inferiore ai 18 mesi ma, anche in questo caso, il prosciutto raggiunge il suo massimo, dal punto di vista organolettico, intorno ai tre anni di età. Ancora oggi è prevista la possibilità di effettuare parte della stagionatura nei tradizionali locali con il camino: per questo motivo, a volte, si può avvertire una leggerissima nota di affumicatura.
Parlare di prosciutto toscano significa non conoscere realtà come queste, che preservano e conciliano qualità organolettica, legame con il territorio, benessere animale e sostenibilità ambientale della produzione.

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3/07/2007

Adorazione e divieti

Samir Kahldi, 38 anni, tunisino, in Italia dal 1991 come rifugiato politico, non solo è l’imam di al-Huda, la moschea di Centocelle a Roma. È anche un commerciante. A Latina, dove vive con la moglie – una donna italiana – e con i quattro figli, ha due tavole calde dove spopolano cous cous e kebab. È lì che ci incontriamo per l’intervista, che apre la sezione Halal di Slowfood 24. L'articolo è di Chiara Ugolini, le foto sono di Alberto Peroli.


Quali sono le fonti religiose delle regole alimentari islamiche?
Le fonti sono il Corano e la Sunna, cioè il nostro libro sacro e la pratica del profeta Maometto. Quanto è riportato lì riguardo al cibo, come per a tutto il resto, diventa legge per un musulmano e deve essere rispettato. Sono due fonti molto importanti, ma certo il Corano è superiore a livello gerarchico. Rispettare le regole alimentari per un musulmano significa essere un credente e manifestare obbedienza ad Allah. Quando nel Corano si parla della proibizione di consumare carne di maiale, ad esempio, il fedele si astiene non perché pensi che faccia male mangiarlo, ma come atto di adorazione.

Le principali proibizioni per un musulmano riguardano quindi la carne di maiale e l’alcol. Sono due divieti ugualmente forti?
In realtà no. L’alcol è chiamato nel mondo islamico la madre delle proibizioni. Subito dopo il divieto di adorare altri al di fuori di Allah c’è il divieto dell’alcol, quindi sulle bevande alcoliche vige una proibizione molto più severa che su altri alimenti. Nel Corano sono ben tre i versetti che affrontano l’argomento, mentre riguardo al maiale troviamo un solo versetto in cui si vieta di mangiarlo, ma non di guardarlo o di toccarlo. Invece, anche il solo sedersi a un tavolo dove ci sono vino o altri tipi di alcolici è severamente proibito.

Qual è il divieto più difficile da osservare?
Forse proprio quello relativo all’alcol, molto diffuso anche nei paesi musulmani. I maiali, invece, nei principali paesi arabi non esistono. Al massimo ci sono cinghiali selvatici nelle foreste, ma nessuna famiglia ha in casa un maiale, tranne qualche straniero. Io ho visto il mio primo maiale dal vivo, non in televisione, quando sono arrivato in Italia.


È difficile per il musulmano che vive in un paese occidentale nutrirsi seguendo le regole alimentari dell’Islam?
No, non è difficile e lo sarà sempre di meno. La difficoltà, magari, riguarda certi ingredienti meno evidenti: se vado al bar a bere il caffè non posso accompagnarlo a un cornetto perché quasi sicuramente contiene strutto, grasso di maiale. Le nuove norme che obbligano i panettieri e tutti gli altri artigiani a indicare chiaramente gli ingredienti impiegati ci sono di grande aiuto. Insomma, il cibo per i musulmani c’è.

E poi sono ormai tanti in Italia i locali, come il suo, gestiti da musulmani.
Certo, è diventato un commercio piuttosto florido. Anche se bisogna fare attenzione alle esagerazioni: noi abbiamo aperto la prima tavola calda a Latina, poi ne sono state aperte molte altre ma non per tutte c’era lavoro e qualcuna ha chiuso. Però è importante favorire e conservare un mercato per questi alimenti. Intorno alla moschea di Centocelle ci sono tre macellerie che vendono carne macellata secondo il rito islamico e altri prodotti conformi alle nostre regole. Quindici-vent’anni fa le cose erano più difficili.

La macellazione di rito islamico è molto simile a quella ebraica tanto che un musulmano in difficoltà può procurarsi carne macellata secondo le regole kasher.
Sì, è così. La pratica è abbastanza semplice: l’animale deve essere indirizzato verso la Mecca, si ricorda che questo sacrificio si esegue in nome di Allah e, infine, si tagliano con una lama molto affilata le due arterie principali. L’idea di fondo è la stessa degli ebrei: scongiurare il più possibile la sofferenza all’animale. Il nostro profeta vieta, infatti, l’uso di coltelli che non siano perfettamente affilati così da determinare, con un unico taglio, la morte immediata dell’animale e anche la fuoriuscita di tutto il sangue che è haram. Anche la distinzione tra halal (“lecito”) e haram (“proibito”) è molto simile alla contrapposizione tra kasher e taref nel mondo ebraico.


Il macellaio nel mondo islamico ha un ruolo importante?
Non particolarmente, perché ogni famiglia deve essere in grado di macellare le bestie. Ovviamente in città questo non avviene, ma in campagna gli animali sono sempre stati uccisi dal capofamiglia. Abbiamo poi una festa molto importante che riguarda proprio questa pratica, la Festa del Sacrificio, che ricorda di quando Dio chiese ad Abramo di sacrificare suo figlio – per gli ebrei Isacco e per noi Ismaele – e lo fermò all’ultimo momento, dandogli un montone da sacrificare al suo posto. Non si tratta tanto di fare festa per mangiare carne, ma di commemorare l’obbedienza del padre di tutti i profeti. Per ricordare questo atto di devozione, ogni famiglia macella un montone di cui regala almeno un quarto ai poveri, mentre il resto è cucinato per la festa.

Per restare nel campo delle restrizioni alimentari, un ruolo fondamentale è svolto dal digiuno del periodo del Ramadan.
Il Ramadan è uno dei cinque pilastri dell’Islam insieme alla fede nell’unicità di Dio, alla preghiera, all’elemosina e al pellegrinaggio alla Mecca. Nei 30 giorni del Ramadan l’obbedienza a Dio si espleta con l’astensione dal cibo, dalle bevande, dal fumo e dai rapporti coniugali dall’alba al tramonto. È una forma di riorganizzazione dei pasti che serve in primo luogo come atto di adorazione a Dio, ma che ha anche una sua funzione per il corpo. In quel mese, in cui il musulmano è obbligato ad anticipare la colazione e a rimandare il pasto principale a dopo il tramonto, il grasso accumulato nel corpo è in parte smaltito.

Il Ramadan è un periodo di digiuno, ma allo stesso tempo una festa che ha nel pasto serale una componente di aggregazione importante.
Nel periodo del Ramadan non si lavora fino a tardi e, quindi, prima che sia sera si prepara il pasto da consumare in famiglia. I bambini non digiunano, ma sono coinvolti nel Ramadan per essere educati a una pratica che si raggiunge in modo graduale: due ore, mezza giornata, fino ad arrivare a rispettare il digiuno giornaliero nel periodo della pubertà. Quindi alla sera ci si ritrova tutti insieme per la rottura del digiuno, c’è un clima festoso e si mangiano molti piatti, soprattutto dolci, che non si cucinano il resto dell’anno. Qualche volta la festa è anche un po’ eccessiva, si arriva a spendere molto e il rito religioso assume un significato troppo consumistico.

È quello che spesso succede nel mondo cristiano a Natale e Pasqua. A proposito di mondo cristiano, come vive il periodo del Ramadan un musulmano che abita in un paese occidentale?
La situazione è ancora difficile. Per il musulmano adulto e in salute il Ramadan è un obbligo e va rispettato anche se egli svolge un lavoro pesante. In Italia l’Islam non è ancora riconosciuto ufficialmente dallo Stato e quindi sta al datore di lavoro più aperto concedere un’ora per la preghiera il venerdì, due giorni liberi per le due feste più importanti dell’anno e, infine, la possibilità di rispettare il Ramadan. Nel nord Italia ci sono molti datori di lavoro che hanno musulmani alle loro dipendenze e che cercano di riorganizzare i turni di lavoro per venire incontro a queste esigenze. Certo è che fino a quando non si giungerà a un accordo con lo Stato italiano, come è avvenuto in Spagna, sarà più difficile. La strada è lunga e non credo che l’accordo arriverà a breve. Occorre aspettare.

A proposito dell’incontro tra Occidente e Islam, il cous cous è considerato il piatto di congiunzione e contaminazione. È un piatto importante, tanto che nella Sunna si indica anche quando mangiarlo, nella notte tra venerdì e sabato.
Il rapporto tra Occidente e Oriente nel corso della storia è stato un rapporto di conflitto, ma anche di scambio e, in questo scambio, il ruolo del cibo è stato fondamentale soprattutto nel bacino del Mediterraneo, il sud dell’Europa e il nord dell’Africa. I musulmani sono stati per più di 500 anni in Sicilia e più di 800 in Spagna e questo ha facilitato uno scambio culturale che si è svolto anche sui fornelli. In Tunisia abbiamo una cucina che mescola le radici arabe con quelle francesi, mentre la Francia è stato uno dei primi paesi in Europa a conoscere il cous cous, proprio per la sua storia coloniale. Credo che il cibo sia un veicolo importante per favorire la conoscenza e l’integrazione e anche la scelta di aprire una tavola calda araba per me ha questo valore. Molte persone entrano per la prima volta senza sapere neppure cosa aspettarsi, magari hanno pregiudizi sulla pulizia del locale gestito da uno straniero, ma con il passare del tempo e con i clienti che ritornano cerchiamo di instaurare un dialogo che passa anche attraverso la cucina.

Il cibo è un elemento importante del paradiso islamico, un paradiso pieno di gaudio che promette il godimento sessuale e della gola. Si parla di leccornie, fiumi di latte, di miele, anche di vino…
Non si tratta del vino che abbiamo in terra, però. In comune c’è solo il nome. In realtà non sappiamo come sarà esattamente il paradiso perché Dio dice: «Ho riservato tante cose per i miei fedeli che neppure possono immaginare». Ha raccontato nel Corano e nella Sunna alcune di queste cose preparate per avvicinare il fedele a quello che sarà e per incoraggiarlo a conquistarlo, ma non dobbiamo immaginarcelo simile al mondo terreno. In fondo, neppure noi andremo in paradiso come siamo ora.

Infine una curiosità a fine pasto. Che cos’è lo stuzzicadenti musulmano?
La traduzione “stuzzicadenti” non è molto appropriata perché non ha niente a che fare con lo stuzzicadenti tradizionale ma, piuttosto, si avvicina a uno spazzolino. È un bastoncino di legno disinfettante tratto da una pianta particolare – la Salvadora persica, che cresce in Arabia – che pulisce i denti come fosse un dentifricio, dà un buon odore alla bocca e rafforza le gengive. Funziona così: si taglia la testa e si creano fili che ricordano le setole di uno spazzolino da denti. Si prescrive di usarlo prima di recitare le preghiere, per la pulizia della bocca e per l’amore di Allah.

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3/05/2007

La degustazione di Carignano del Sulcis

Nonostante che gli ultimi anni abbiano visto un fiorire di nuove aziende viticole e il recupero qualitativo di realtà storiche, il Sulcis non presenta una varietà enorme di cantine attive sul suo territorio. La degustazione che vi proponiamo riporta tutte le etichette principali prodotte con il vitigno carignano, sia vinificato in purezza sia associato a varietà alloctone.
Tratto da Slowfood 24, in accompagnamento all’itinerario del Carignano del Sulcis.

Cantina Sociale di Santadi
Via Cagliari, 78
Santadi (Ci)
Tel. 0781 950127


Carignano del Sulcis Superiore Terre Brune ’02
Questo è il vino che ha fatto la storia del Sulcis vitivinicolo e della varietà carignano. Probabilmente la versione 2002 – complice l’annata non perfetta – non è la migliore mai prodotta, ma regala, comunque, note olfattive e gustative interessanti e gradevoli. Al naso si avvertono profumi di frutta rossa matura e di spezie dolci come cannella e vaniglia. In bocca è elegante, pieno e ricco di carattere.

Carignano Rocca Rubia Riserva 2003
Il deuxième vin della cantina di Santadi mostra un carattere fuori dalla norma e mette in luce tutte le qualità migliori del vitigno carignano. All’olfatto si avvertono sentori di viola, terra, ciliegia e tabacco. Al palato è morbido al gusto, avvolgente, lunghissimo e dal finale nobile grazie alla buona vena acida.

Carignano Rocca Grotta Rossa 2004
Un vino quotidiano nell’accezione più nobile del termine: fruttato e godibilissimo nei suoi profumi freschi, che invitano alla beva. Il prezzo – decisamente inferiore ai 10 euro in enoteca – è molto concorrenziale e lo fa rientrare tra gli acquisti più azzeccati che un appassionato dei vini sardi può fare.

Mesa
Località Su Baroni
Sant’Anna Arresi (Ci)
Tel. 0781 689390


Buio Buio ’04
La cantina di Gavino Sanna e di Giuseppe Mele ha iniziato da poco a produrre vini, ma la qualità degli stessi dimostra di essere già molto elevata. Il Buio Buio 2004 è un carignano in purezza, che dona nuances di mora, ribes, vaniglia, pepe e caffè. Dal punto di vista gustativo è caldo e morbido, con un ottimo finale concentrato.

Malombra ’04
Come si è detto, il carignano è un vitigno dall’elevata “socialità organolettica” e in questa bottiglia si conferma questa sua dote particolare. Si tratta, infatti, di un carignano all’85% con un minimo saldo di syrah, maturato in piccoli fusti di rovere per un anno. All’olfatto sprigiona sentori di marasca, frutti neri e legno dolce. È succoso, accompagnato da una notevole struttura polifenolica.

Sardus Pater
Via Rinascita, 46
Sant’Antioco (Ci)
Tel. 0781 800274


Carignano del Sulcis Kanai Riserva 2003
Decisa la crescita qualitativa dei vini della cantina Sardus Pater che ci presenta questa buona versione del Kanai Riserva 2003, la quale a nuances di frutta matura come il mirtillo e la prugna affianca una bocca ricca di mineralità e di una polpa succosa e di gradevole beva.

Carignano del Sulcis Issolus 2005
Buona prestazione per questo “base” della cantina di Sant’Antioco, che gioca molto sui toni fruttati e sulla bevibilità di un prodotto gradevole e molto piacevole. Al naso si percepiscono profumi di frutta molto matura come la prugna, i mirtilli e i ribes; al palato è succoso, dolce e di pronta beva.

Cantina di Calasetta
Via Roma, 134
Calasetta (Ci)
Tel. 0781 88413


Carignano del Sulcis Tupei 2005
Dopo un lungo passato segnato dalla produzione di mosti per l’esportazione e per la vendita a terzi, la Cantina di Calasetta ha deciso di iniziare a imbottigliare il suo vino. Le prime bottiglie assaggiate ci fanno ben sperare, anche se il percorso intrappreso non è certo dei più semplici e dei più immediati. Il Tupei 2005 è gradevolmente fruttato (con note surmature), con un finale corretto.

Agricola Punica
Località Barrua
Santadi (Ci)
Tel. 0781 950127


Barrua 2003
Un vino nato dal matrimonio di intenti tra il marchese Incisa della Rocchetta e la cantina sociale di Santadi. Si tratta di un blend di uve carignano, cabernet sauvignon e merlot, che danno vita a un prodotto di grande struttura e personalità: marmellata di prugna e di ciliegie al naso, venato da nuances di vaniglia e caffè rilasciati dalla permanenza in legno. In bocca è morbido, con tannini velluatati e setosi.

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3/01/2007

Le risate nel vicolo

La rubrica Osterie d’Italia rimane una delle colonne portanti di Slowfood, che questa volta è andato a Imola, a incontrare le donne dell’Osteria del Vicolo Nuovo.
L’articolo è a firma Fabio Giavedoni, le foto sono di Cristina Paglionico del Fiaf.


Ambra Lenini e Rosa Bozzoli hanno aperto l’Osteria del Vicolo Nuovo più di vent’anni fa e da quella data, da romagnole veraci quali sono, sono l’anima, il cervello, il cuore e le braccia della loro impresa. Entrando nel locale si è travolti dalla risata ampia e schietta di Ambra, che rimbomba negli ambienti ricavati all’interno di un antico palazzo secentesco – ex edificio scolastico dei Gesuiti – e che in estate si disperde tra i tavoli apparecchiati nel vicolo. Una sonora risata romagnola, ammesso che sia possibile sentire inflessioni dialettali nel ridere; Rosa, invece, è solitamente seria, con un aplomb inglese granitico, ma in fondo non sembra divertirsi di meno. L’allegria e la cordialità sono da sempre uno dei tratti distintivi di questa ottima osteria imolese, accanto all’altra decisiva particolarità: fin dall’inizio è stato un locale di donne dove hanno lavorato solo donne. Anche in cucina la decana Romana Poli, che fin dall’inizio condivide con Ambra e Rosa questa avventura, e la più giovane Stefania Baldisarri sembrano contagiate dal buonumore dilagante, cosa singolare in un ambiente che nella realtà non è certo rilassante.

Tra donne sole
Ma non litigate mai? È questa la prima domanda che viene spontanea, anche se sembra un po’ ovvia e scontata. «Ce lo chiedono sempre tutti, ormai ci siamo abituate… Non ci crederai» mi dice Ambra «ma sono vent’anni che andiamo d’accordo, senza mai un diverbio. Talvolta c’è stata qualche piccola incomprensione ma nulla di più. E di questo andiamo fiere per due motivi: il primo, più ovvio, è che il lavoro dell’oste è duro, l’ambiente non è certo facile, il contatto con il pubblico si fa ogni giorno più impegnativo e, quindi, litigare all’interno avrebbe reso il tutto così insopportabile che sicuramente avremmo abbandonato l’impresa; il secondo è che volevamo sfatare il mito – che molti malignamente ci ricordavano agli inizi della nostra avventura – che tra donne si litiga sempre. È stata fin da subito la scommessa più grande che avevamo di fronte e abbiamo fatto di tutto per vincerla, oltretutto stando bene attente a non cadere nelle logiche esclusive del più convinto femminismo. In fondo, noi, femministe non lo siamo mai state, ci piaceva solo condividere il lavoro con altre persone del nostro sesso. Oggi siamo veramente soddisfatte, perché all’interno del nostro gruppetto di donne che stanno fuori casa – oltre alle citate danno una mano in osteria anche Miriam Sangiorgi, Samira Saurour e Simona Sapori – si è creato un cordone di grande solidarietà, uno spirito di gruppo veramente unico».
Questa felice condivisione della vita lavorativa si ripercuote anche sulle rispettive famiglie. Ambra ha una figlia di 33 anni, Rosa ne ha due, una con qualche anno in più e una appena più giovane: «Sono sempre state ragazze molto autonome, un po’ giocoforza visto che le mamme a casa per buona parte della giornata non c’erano. Ma ci sono sempre stati un buon clima e un bell’affiatamento con loro perché siamo più che mai convinte che la piena realizzazione della persona faccia bene anche ai figli. Il lavoro è sempre più importante nella vita contemporanea e il fatto che noi fossimo felici nel nostro locale ha avuto indubbie influenze positive anche sulla nostra sfera privata. Le nostre famiglie poi non hanno mai “vissuto in osteria” e, quindi, hanno condotto una vita normale».
E con i vostri mariti, che fanno un altro lavoro, come è andata? Ridono in coro Ambra e Rosa spiegando che quello del marito al Vicolo Nuovo è un lavoro duro: «I nostri mariti non mettono becco nella gestione dell’osteria e fanno quello che i mariti sanno fare: cambiano le lampadine, aggiustano il forno quando si rompe, d’estate spostano i tavoli e mettono dentro le sedie al termine della serata. Non sono mai stati in vista, non hanno mai preso un merito, ma è così, non c’è nulla da fare e loro lo sapevano benissimo. Scherzi a parte, in fondo sono contenti come noi».

Il rito della spesa
Tra una risata e l’altra si arriva a parlare anche della gestione dell’osteria e si scopre subito che stranamente al Vicolo Nuovo non avvengono mai consegne di merci, esclusi l’acqua e i vini. «La spesa vado a farla io» dice Ambra «e mi diverto anche molto». All’osservazione che forse è folle per un’osteria che tiene aperto a pranzo e a cena gestire gli acquisti in questo modo, Ambra salta su dicendo: «Vuoi togliermi anche questa soddisfazione?! Rosa va unicamente dalla nostra verduraia, che produce nel suo orto tutto quello che ci serve, perché è vicina a casa sua; io mi occupo, ogni sacrosanta mattina, di tutto il resto. Negli anni ho intessuto una fitta rete di rapporti con macellai, pescivendoli, produttori di formaggi, di salumi… Dopo tanto tempo ci si capisce al volo, sanno subito quello che voglio e non possono più fregarmi, anche perché mi conoscono e sanno che farei scenate incredibili davanti agli altri clienti! Certo, in un qualche modo ci complichiamo la vita, ma non riusciamo a fare altrimenti. All’inizio abbiamo provato a farci consegnare la roba a casa, ma non eravamo mai contente e quindi abbiamo subito smesso; in fondo però una cittadina piccola come Imola ci facilita il compito». «Diciamo pure» conclude Rosa «che in questo modo non abbiamo mai corso il rischio di farci rifilare quello che non volevamo, e di conseguenza di propinarlo ai clienti!». «Andare di persona a fare la spesa» continua Ambra «è inoltre fonte di spunti e di riflessioni sui piatti da proporre in osteria. Noi siamo nate, dal punto di vista culinario, agli inizi degli anni Ottanta, quando tornarono di moda le osterie e siamo sempre rimaste ancorate a quella visione della cucina: piatti semplici, con una base di tradizione ma senza schemi troppo rigidi. Per questo ora proponiamo, accanto ai piatti della cucina romagnola, anche ricette della tradizione di altre regioni vicine. Le idee per una nuova pietanza spesso mi vengono proprio andando a fare la spesa: allora vedo i rognoni, le trippe, la guancia di vitella e comincio così a pensare al piatto, leggendo e facendomi aiutare dalla mia curiosità. Quando mi sono finalmente convinta lo spiego in cucina e poi lo facciamo, senza tante prove o elaborazioni: la Romana, che pure è colpita da un sano furore culinario, non pensa mai a piatti nuovi ma, quando ne propongo uno, è capace di farlo subito meglio di quanto io stessa pensassi».

La risurrezione del tortellino
In effetti la cucina del Vicolo Nuovo è lineare, semplice, senza troppe elucubrazioni ma assolutamente efficace, buona per una breve ma appagante sosta di mezzogiorno, per un confortante dopoteatro notturno oppure per una più lauta e articolata cena “da ricorrenza”. Si capisce subito che Ambra e Rosa non amano quel genere di cucina che loro chiamano “acrobatica”; sono fortemente convinte che un piatto debba stupire per il gusto e non per la combinazione di colori e di forme. Su questo non hanno mai avuto dubbi. I problemi che si trovano a risolvere semmai sono altri e te lo spiegano quando affronti il tema dei tortellini (in brodo, ovviamente, perché in qualsiasi altro modo non sono mai stati neanche lontanamente pensati!): «Per qualche anno li avevamo abbandonati perché li volevano in pochi e in osteria ordinavano altre minestre. In seguito, però, ci siamo accorte che la gente aveva ripreso a chiederli per il semplice fatto che a casa non li faceva più nessuno. Si sa che per ogni emiliano il tortellino più buono è quello che si fa a casa propria – per i romagnoli vale la stessa regola, ma l’oggetto del contendere in questo caso è il cappelletto, ripieno di solo formaggio, senza carne – e pertanto, se volevamo proporli, avremmo dovuto farli per forza noi (guai a comperarli!), e per forza buoni. Diversamente, ne avremmo fatto tranquillamente a meno. Ci rendiamo conto che forse poteva essere una questione banale, ma per noi era fondamentale». L’assaggio del piatto ci conferma che il presunto problema è stato grandemente superato.
Alla fine chiediamo ad Ambra e Rosa quale sia il segreto che ha ottenuto che, dopo più di vent’anni, la gente entri ancora nella loro osteria con l’entusiasmo dei primi giorni. «Nessun segreto» dicono in coro «siamo ancora qui perché in realtà di principi azzurri per l’osteria ne sono passati tanti ma nessuno ci ha mai portato via veramente!». Seguono risate, ovviamente, fino alle lacrime.

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