Chiacchiere di vino, musica e cucina/Slowfood

Uno spazio in cui leggere in anteprima e dibattere gli articoli della rivista italiana di Slow Food: osterie e locande d'Italia, recensioni, Presìdi, inchieste, desco music, itinerari del vino e dell'olio, balloons, biodiversità, Comunità del cibo, degustazioni, cultura alimentare…

2/28/2007

Eccola!

Ci siamo!
Slowfood 24 è finalmente uscito nella sua nuova veste grafica (curata dallo studio torinese Bod'A), come ampiamente anticipato su questo blog e sul sito di Slow Food Editore.
Ci piacerebbe che soci e fiduciari la sfogliassero con attenzione, segnalandoci le loro opinioni al riguardo: se più bella, se più leggibile, se più interessante.
Qui, trovate i link ai pdf dell’intero impaginato: basta ciccare sui titoli del sommario e avrete l’intera rivista a vostra disposizione.
E dunque, buona lettura!

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2/21/2007

I see a red wine and I want it painted black (di Giles MacDonogh)

A quattro giorni dall’uscita di Slowfood 24, anticipiamo l’itinerario dei vini di Cahors contenuta in Slowine.

Si è molto discusso della natura precisa dei vini “neri” di Cahors. Il giornalista enologico inglese Clive Coates postula che il vino fosse «cotto» e aggiunto di alcol1, ma sembra più probabile che lo si definisse nero solo per distinguerlo dal clairet, il “chiaretto” di Bordeaux, prodotto con uve sia nere sia bianche. Nero non era altro che quello che oggi chiameremmo un bel rosso.

Origini
Cahors vanta origini antiche. Il vino era conosciuto come Falernum in epoca romana in quanto era fatto nello stile dei tanto apprezzati cru dei pendii del Vesuvio. Molti sostengono che fosse già prodotto con l’uva auxerrois (malbec o cot) che dà vini di colore profondo, ma le cultivar mutano così in fretta che sarebbe ingenuo pensare che il carattere odierno di una varietà ci dica molto sul sapore di qualche sua antenata di un secolo fa e, a maggior ragione, di 1000 o 2000 orsono.
Sul piano geografico, Cahors aveva molte frecce al suo arco. La città romana e medievale si trova sulle rotte commerciali per Marsiglia, Bordeaux e Compostella, il che significa che i pellegrini potevano apprezzarne il vino e diffonderne la fama. Le strade non erano sempre affidabili, ma il fiume Lot è un affluente della Garonne e le merci potevano quindi partire da Bordeaux o Royan nell’estuario della Gironde. Balzelli erano imposti dai numerosi castelli lungo la strada prima che i mercanti di Bordeaux tassassero pesantemente il vino. Ne valeva la pena: il nero godeva di grande reputazione nell’Europa settentrionale, mentre il clairet tendeva a sfiorire e a deteriorarsi durante i lunghi viaggi in mare.
Cahors cominciò poi a subire le conseguenze della lotta di potere, che va sotto il nome di guerra dei cent’anni, tra la corona inglese e quella francese. Gli inglesi istituirono il famoso “privilegio” per i vini di Bordeaux nel 1373, avendo deciso che gli altri loro territori li avevano traditi. Ciò significava tasse ulteriori su vini di Cahors nel Quercy e su tutti quelli che non provenivano dal siniscalcato di Bordeaux. Cahors era tornata alla Francia e il suo vino non poteva essere portato a Bordeaux prima di Natale, quando il mare era troppo agitato per trasportarlo. Furono i bordolesi ad avvantaggiarsene: usarono Cahors per rinvigorire i loro vini più esili. I prodotti provenienti da terre francesi dovevano lasciare Bordeaux prima del 1° maggio per assicurare a quest’ultima il vantaggio di mari più calmi e la possibilità di vendere i propri dopo la vendemmia.
Quando infine tutta la Guyenne divenne territorio francese nel 1453, sarebbe sembrato ovvio eliminare il privilegio per Bordeaux che aveva favorito i vini “inglesi”, ma il re di Francia decise di mantenerlo per guadagnarsi la lealtà dei nuovi sudditi, che sospettava sentissero la mancanza dei loro padroni inglesi. Con una o due brevi interruzioni, il privilegio rimase in vigore fino alla rivoluzione francese.

Prosperità
I vini di Cahors superarono tutti gli ostacoli perché rimasero popolari in Europa settentrionale e furono sempre più richiesti dopo le guerre di religione francesi nel Cinquecento. Molti protestanti francesi emigrarono in Olanda, nei porti anseatici, in Prussia, Inghilterra e Irlanda, mantenendo però legami in patria in modo da poter portare avanti i commerci. A partire dalla seconda metà del Seicento, i gusti cambiarono: i vini scuri erano più ricercati dei clairets. Tale sviluppo culminò nei «nuovi clarets francesi», che dall’inizio del Settecento presero d’assalto la Gran Bretagna. Erano il frutto di una ricetta nata a Château Haut Brion. Bordeaux era finalmente arrivata. Quel vino era sì chiamato claret, ma era lontano mille miglia dal clairets; e, molto probabilmente, Cahors continuò a rinvigorire i prodotti più esili provenienti dalle tenute di proprietà dei nobili e dei mercanti di Bordeaux.
La qualità del vino di Cahors prima del XX secolo doveva molto al fatto che le viti fossero piantate su terreni rocciosi: gli affioramenti calcarei o causses esposti a sud, sopra la fertile terra alluvionale su entrambe le sponde del Lot. La situazione cambiò quando Cahors toccò il culmine della sua prosperità intorno al 1850, dopo l’epidemia di oidio e prima del 1876, quando la fillossera spazzò via tutto, qui come ovunque. Durante quel quarto di secolo si assistette a una vera e propria furie de planter. Si dice che al termine di quel periodo gli ettari vitati fossero 80 000 – il doppio del 1816 – e che non si scorgesse un solo albero nella valle del Lot. La vite arrivò fino al fiume. Il celebre black wine del causse spuntava prezzi tre volte superiori a quelli del vino comune, clairet o bianco.

Abbandono
Cahors colse anche i vantaggi dell’avvento della ferrovia, in quanto non dipendeva più dai mercanti di Bordeaux, che dimostravano la loro lealtà alla terra natia privilegiando i vigneti nei dintorni della città. La fillossera non soltanto cancellò quasi tutte le viti, ma cambiò la mentalità. Le vigne colpite più duramente furono quelle piantate nei migliori terreni calcarei, mentre sui suoli argillosi più vicini al Lot resistettero meglio. L’unico modo per sconfiggere la fillossera era piantare le viti su piede americano, che però non si adattava bene al calcare: altra ragione per abbandonare i pendii delle colline, che non erano mai stati facili da coltivare. La grande guerra contribuì ulteriormente al declino di Cahors portandosi via tanti degli uomini abili nel lavorare le vigne e il colpo di grazia fu inferto dai vigneti dell’Algeria, che potevano dare vini scuri e forti a un costo assai inferiore. Il malbec fu progressivamente abbandonato a favore di altre varietà più facili. Cahors era pressoché morta.

Rinascita
La rinascita è avvenuta dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1971, durante la presidenza di Georges Pompidou, Cahors ottenne la Aoc. Restavano in produzione solo 440 ettari; trent’anni dopo quella cifra era decuplicata, pur rappresentando appena un quinto della superficie potenziale della denominazione. I viticoltori dovevano utilizzare il 70% di malbec e potevano aggiungere tannat, merlot, syrah o jurançon rouge per il restante 30%.
La grande maggioranza dei nuovi impianti è stata fatta sui terreni poveri della valle del Lot. Buona parte delle uve di qualità inferiore era venduta alla cooperativa Les Caves d’Olt di Parnac – anch’essa in grado di fare buoni vini. Purtroppo, la deplorevole Carte Noire squalificava Cahors agli occhi di molti appassionati di vino.

La nidiata di Lagrézette
I commentatori hanno continuato a chiedersi che cosa fosse successo ai vini neri, ma Cahors faceva progressi. Nel 1980 Alain Dominique Perrin, della celebre gioielleria parigina Cartier, acquistò Château de Lagrézette, 65 ettari, cominciando subito a trasformare le vigne. Nel 1998 ha costituito una società di négoce per acquistare partite di uva destinate ad aumentare la produzione del vino base del Château. Il vino di punta denominato Pigeonnier, da uve malbec in purezza di uno specifico appezzamento dietro il castello, è stato affidato all’enologo consulente Michel Rolland di Pomerol, per conferire al vino il tipico carattere possente dei suoi prodotti. Il Pigeonnier ha avuto l’effetto di galvanizzare altri produttori desiderosi di ottener la Aoc. L’azienda ha avuto grande successo con i vini maestosi prodotti nel 2004 e 2005, ma resta sempre la domanda se siano Cahors o altri vini di Rolland.
Il Pigeonnier non è l’unico nella nidiata di Lagrézette. C’è anche La Dame Honneur, fatto secondo uno stile più femminile con un po’ di merlot per soddisfare i tradizionalisti. Il vino che porta il nome dell’azienda – Château de Lagrézette – è stato di recente classificato tra i 100 migliori del mondo da una rivista americana. La fama di Perrin non solo ha aperto le porte del mercato ai suoi vini, ma ha promosso Cahors in tutto il mondo. Sono stati fatti arrivare giornalisti in elicottero per degustazioni speciali, ospitandoli nel magnifico Château de Mercuès, un tempo residenza dei vescovi di Cahors.

La carta della qualità
Oltre a mostrarsi generoso, Perrin ha incoraggiato altri produttori. Si è impegnato a studiare un progetto per riscattare Cahors e cancellare una volta per tutte la sua immagine modesta. Nel dicembre 2002, insieme con altri, ha proposto una modifica della Aoc in base alla quale le vigne sarebbero state gradualmente spostate sulla seconda terrazza sopra il fondovalle nell’arco di 25 anni, al termine dei quali 400 ettari sarebbero stati declassificati. Il passo successivo sarebbe stato di portare le viti su un terzo livello, declassificando il secondo. Quando le sue proposte sono state bocciate, Perrin se n’è andato sbattendo la porta e da allora non ha più partecipato.
Il testimone è stato in parte raccolto dalla Carta della qualità varata nel 1999. L’idea era di creare grands crus chiamati Excellence. La carta prescrive che i vini siano neri, sappiano invecchiare e siano dotati di eleganza. Come varietà complementari sono ammessi solo tannat e merlot, per non meno del 12% contro il 10,5% della Aoc. I vini devono essere selezionati ogni anno da una giuria severa. Il loro numero quindi varia: 13 il primo anno, 19 nel 2000, 27 nel 2001, 22 nel 2002, 12 nel 2003 e 28 nel 2004.
I produttori hanno il diritto di destinare una parte delle vigne al loro vino Excellence. L’auxerrois o malbec è considerata l’unica uva seria della denominazione e gran parte dei vini di punta è prodotta esclusivamente con esso. La popolarità dei vini argentini è stata di un certo aiuto: ora è possibile acquisire un gusto per il malbec e riconoscere Cahors come luogo d’origine.

Le nuove aziende
Château Croisille, situato fuori mano nell’area in cui si producevano i tradizionali vini neri, è rappresentativo delle nuove aziende di Cahors. I Croisille, pur avendo piantato le vigne nel 1979, non hanno prodotto subito vini propri, conferendo invece le uve alla cooperativa. Oggi dispongono di 13 ettari. Il vino base, fatto con malbec e merlot, è ottimo, ma naturalmente c’è anche un Malbec in purezza chiamato La Noble Cuvée, frutto di rese molto più basse. È piuttosto potente, ma Divin va oltre e presenta sentori di fichi e cioccolato. È fatto nello stile dei vini in voga, quelli che fanno guadagnare davvero i loro artefici.
A Château Lamartine, Alain Gayraud dispone di una decina di varietà complementari; è il produttore più a occidente di Cahors. Avendo vigne più soggette all’influenza dell’Atlantico, deve vendemmiare qualche giorno prima dei colleghi a est. Limita la produzione a sei grappoli per pianta e dirada il resto. Dispone di 28 ettari, ma destina le uve delle vigne migliori al suo Excellence. La produzione è di una bottiglia per pianta. I vini migliori possono essere frutto di rese di appena 13 ettolitri per ettaro. Mi sono innamorato del suo 2001, ma ho constatato che le bottiglie assaggiate a Cahors purtroppo non erano in forma.
Ho degustato una trentina di vini della nuova generazione alla Maison du Vin di Cahors. I buoni vini a base di malbec o auxerrois hanno un carattere quasi floreale, una sorta di arbusto esotico fuso con gli aromi e i sapori delle more di gelso e di tanto in tanto la violetta. A volte il frutto ricorda di più il lampone, più simile al carattere varietale che troviamo nei vini argentini. Qualcuno esprimeva anche un cenno di cedro o di tabacco. In gran parte sono vini grassi, nello stile possente di Rolland, evidentemente sulla scia del prezzo e del successo di Lagrézette, e ricordano un Porto secco. Era presente anche uno stile più sommesso, che a lungo termine sembrava corrispondere meglio all’immagine del «vino nero» di Cahors.
I 12 vini migliori, a mio giudizio, sarebbero in ordine decrescente Lou Prince 2002 del Domaine du Prince; Haute Collection 2001 di Château Eugénie; La Métairie 2001 di Métairie Grand du Théron; Cuvée d’Exception 2001 di Château Croix de Mayne; Le Pigeonnier 1999 di Château de Lagrézette; Eulalie 2001 di Château de Cenac; Elite 2001 di Château Combel-La-Serre; Quintessence 2002 di Château Les Rigalets; Divin 2002 di Château La Croisille; L’Eclat 2002 di Château la Coustarelle; Chevalier de Malecoste 2003 di Château Camp del Saltre; e La Tour Saint Sernin 2000 di Château Saint Sernin.
Lou Prince proponeva un’inebriante mescolanza tra sentori di mora di gelso e lampone, tannini fini e rinfrescanti e un cenno di menta. Era morbido ma non pesante: per me il Cahors perfetto. Lou Prince costa 20 euro e la maggior parte degli altri tra 15 e 20, mentre Le Pigeonnier supera i 60 euro e alcuni (Chevalier de Malecoste, ad esempio), solo 7. Château Lacapelle-Cabanac è un’azienda biodinamica.
Oggi Cahors gode di miglior salute di quanto si sia verificato dagli anni Settanta dell’Ottocento, ma il fallimento dell’iniziativa di Perrin ha rappresentato una battuta d’arresto. In cuor suo, ogni produttore capace sa che le viti devono tornare sui pendii esposti a sud, preferibilmente sulla riva settentrionale del Lot. Il Cahors tornerà a essere nero quando le viti saranno bandite dal fondovalle.

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2/19/2007

I voti e il racconto (di Vittorio Manganelli)

A sette giorni dall’uscita di Slowfood 24, anticipiamo l’editoriale di Slowine, sezione che si presenta completamente rinnovata e arricchita.

Nell’ampio dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni sul senso delle valutazioni enologiche, mi sembra che ci si sia un po’ troppo semplicisticamente soffermati su due delle categorie in causa: i giornalisti e le guide da una parte; i consumatori, gli enotecari e i ristoratori dall’altra.
Provo a riassumere una parte, sicuramente interessante e stimolante, della nostra riflessione inerente alla valutazione del vino, anche sulle pagine di Slowfood, ma non solo. Partendo dalla considerazione che il rispetto per l’ambiente, l’attenzione alla salute e la valorizzazione delle economie locali debbano costituire una parte importante nella valutazione di un vino, si è – a mio parere correttamente – sottolineato come sia necessario che tutto questo si traduca in metodi di giudizio che non si limitino all’aspetto degustativo (per il quale possono andare bene i bicchieri, così come i decimi o i grappoli) ma che inglobino considerazioni sulla provenienza, sui metodi di lavorazione in vigna e in cantina, sull’aggiunta di sostanze, sulla dimensione produttiva: in sostanza, su quel «pulito e giusto» che per forza di cose sfugge all’analisi organolettica.
A tal proposito ribadisco chiaramente che, come ripetutamente e perentoriamente dichiarato da Carlin Petrini, noi non ci trasformeremo in un ufficio repressione frodi né in un laboratorio di analisi né in una camera di commercio. È evidente che tutti noi giornalisti e critici enologici manterremo e, anzi, aumenteremo la nostra attenzione nei confronti degli aspetti puliti e giusti nelle nostre visite alle aziende vitivinicole, ma certo non faremo i carabinieri.
È quindi ora che entrino in campo direttamente i produttori, almeno con due interventi importanti. Il primo consiste nel mettere in luce, con precise denunce, le realtà produttive che notoriamente oltrepassano i confini della dignità enologica: succede troppo spesso che, all’interno di aree doc e docg, si parli di cisterne che arrivano da fuori zona, di vini doc dalle dubbie qualità che intristiscono lieti banchetti nuziali o l’emergente mercato russo e, ancora, di vini offerti a 80 centesimi alla bottiglia con la possibilità di scegliere quale doc mettere sull’etichetta. Potrebbe anche trattarsi di voci malevole, ma che i consorzi non affrontino il tema con determinazione non è ulteriormente sostenibile (anche perché noi vecchi aspettiamo dai tempi del metanolo che la richiesta più decisa di controlli e repressioni giunga da parte dei diretti interessati).
In secondo luogo, anche i singoli produttori possono svolgere attivamente la loro parte. Non dico che le etichette vadano riempite con tutti i dati relativi alle sostanze utilizzate in vigna e in cantina né che ogni retroetichetta debba riportare i dati analitici completi di ogni vino, ma è certo che queste informazioni potrebbero e dovrebbero essere fornite a chi acquista il vino in cantina e a chi si occupa di critica enologica. Dichiarate tranquillamente, portateci anche in vigna, non fateci vedere solo le barrique ultimo modello, appendete nella sala degustazione tutte le informazioni sulle vostre bottiglie, sui vostri metodi di lavoro, sulla vostra filosofia produttiva (che noi potremo riportare sulle nostre guide).
A differenza di altri, io non credo, però, che possa o debba essere tradotta in punteggi la conoscenza delle esatte pratiche di cantina e di vigna, del terroir, del vitigno, del clone e del portainnesto, delle propensioni più o meno biologiche o biodinamiche del produttore e via dicendo. Non penso che le emozioni debbano essere tradotte in punteggi (non fa differenza che si tratti di centesimi o di faccine più o meno tristi), come non credo vadano misurati quantitativamente gli aspetti legati al pulito e al giusto del vino. Si tratta, infatti, di elementi che dobbiamo essere capaci di descrivere e di far apprezzare attraverso il racconto, con le parole e non i con voti.
Ritengo, quindi, che si possa tranquillamente continuare a giudicare i vini attraverso la degustazione alla cieca, lasciando ai bicchieri o ai centesimi il compito di dare una valutazione sulla “qualità” del prodotto, delegando alla parola altre questioni, quali la rispondenza di un certo vino a una certa vigna, a un certo stile di cantina, a un certo rapporto con il terroir e con la tradizione produttiva di una certa zona. Come Slow Food ha da vent’anni cercato di fare con Vini d’Italia, in cui lo spazio dedicato ai semplici e crudi punteggi è sempre stato di gran lunga inferiore alla scheda in cui si parlava della sapienza del vignaiolo o della nascita di un figlio o della scomparsa del capacissimo potatore. E in cui si poteva anche dire che l’azienda vinicola non ha terra, che compra vini o uve, che il legame con il territorio è rappresentato più dal nome in etichetta che dalla riconoscibilità del prodotto.
Credo, pertanto, che per molti appassionati continui a essere interessante, anzi potrà esserlo sempre di più come conseguenza dell’aumento delle etichette in commercio, continuare a proporre schede corredate da una semplice valutazione con simboli o numeri, affinché sappiano cosa acquistare in enoteca, in cantina o al ristorante.
Penso infine che, per rispondere ai dettami della naturalità, un vino non debba essere necessariamente difettoso o comunque affetto da personalità disturbata: i vini possono continuare a essere buoni da bere, oltre che da pensare.

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2/16/2007

Il treno dei desideri (di Roberto Burdese)

A dieci giorni dall’uscita di Slowfood 24, anticipiamo l’editoriale del Presidente di Slow Food Italia.

«Conoscere gente sul treno può essere meglio che stringer la mano» dice una canzone degli Amari, gruppo pop di Pordenone conosciuto in quel di Bra qualche mese fa. Mi è tornata in mente alcune settimane fa mentre viaggiavo sull’Eurostar che da Torino raggiunge Lecce, seduto di fronte a un simpatico camionista conosciuto, appunto, sul treno. Si chiacchierava per ammazzare il tempo e costui mi parlava dei suoi viaggi e, soprattutto, della natura dei suoi trasporti. Olio di oliva scaricato a Livorno da navi provenienti un po’ da tutto il Mediterraneo e consegnato a noti oleifici nazionali; cosce di maiali allevati (o macellati) nell’Est europeo e trasformate in prosciutti da prestigiosi salumifici del nostro paese; vini prodotti nel sud d’Italia e trasferiti a importanti cantine di altre regioni. Mentre il mio compagno di viaggio percorreva idealmente lo stivale con il suo camion carico di merci pronte a cambiare carta d’identità a ogni fermata, constatavo per l’ennesima volta la scarsità di notizie di cui disponiamo in merito al nostro cibo quotidiano.
Delle verdure ci è concesso sapere la nazionalità, mentre luogo di origine e nome del produttore non sono mai dichiarati e, evidentemente, non ci è detto nulla in merito alle pratiche agricole utilizzate. Dei salumi conosciamo il trasformatore ma quasi mai la provenienza della materia prima (e, di conseguenza, la forma di allevamento praticata, inclusa la questione fondamentale dell’alimentazione degli animali). Per i formaggi possiamo disporre del nome dello stagionatore, del consorzio, del selezionatore, talvolta del produttore, e spesso abbiamo garanzie in merito all’origine del latte ma, ancora una volta, non sappiamo nulla dell’allevamento. Del pane non si specificano mai farine e lieviti. Il vino ci dice molto, ma – caso unico nel panorama alimentare – non è obbligato a dichiarare in etichetta i propri ingredienti (che, come sappiamo, non si limitano più alla sola uva).
Eppure si deve mangiare tutti i giorni e anziché farsi prendere dalle paranoie o perdere tempo alla faticosa ricerca di cibi che diano maggiori informazioni e garanzie, la gente si è ormai rassegnata al meno peggio e anche i più attenti al tema sono costretti a circoscrivere la propria sensibilità ad alcuni contesti o alcuni prodotti, tollerando il più delle volte quanto propone il “mercato”.
E i segnali per il futuro sono sempre più allarmanti: gli ogm si stanno infiltrando nonostante l’ampio dissenso dei consumatori (in molti alimenti sono al di sotto delle soglie di tolleranza; in altri casi li assimiliamo in forma indiretta poiché sono stati utilizzati per alimentare gli animali che mangiano o di cui consumiamo latte o uova); la battaglia planetaria della grande distribuzione continua a mietere vittime nel campo della qualità, costringendo anche i pochi virtuosi a rinunciare alle loro ambizioni; contadini, pastori e pescatori sono ogni giorno di meno, solo parzialmente sostituiti da “operai” della terra, degli allevamenti e delle acque; le terribili profezie sul clima ci annunciano raccolti sempre meno ricchi e sempre più difficili, con evidenti conseguenze che arriveranno fino al nostro piatto (e già questa estate avremo un amaro assaggio di questo preoccupante menù del futuro).
In questo quadro generale, potremmo farci prendere dallo sconforto e invece di continuare a fare Presìdi, orti scolastici, Laboratori del Gusto e corsi Master of Food, potremmo tornare a sederci intorno a quella tavola imbandita da cui siamo partiti vent’anni fa, e sbafarci tutto. Sarebbe certamente più semplice, poco politically correct ma del tutto privo di contraddizioni.
Invece, la scommessa di Slow Food per i prossimi anni sarà quella di affrontare di petto le contraddizioni del mondo globale in cui viviamo, non rifiutandone in toto il modello economico-alimentare (sarebbe impossibile, a meno che non si ragioni a livelli di scelte individuali), ma lavorando parallelamente (e non segretamente) per la costruzione di un modello alternativo. Un modello che, va da sé, ha le sue radici nella rilocalizzazione delle produzioni e dei consumi. Nella ricostruzione della rete di relazioni, umane ma anche economiche, a livello locale. Nella ridefinizione delle nostre comunità.
Potrebbe apparire un lavoro improbo per un’associazione fondata principalmente sull’impegno di volontari, raccoltisi intorno ai princìpi di Slow Food soprattutto per ritrovare il piacere del convivio e la gioia dello stare assieme. Invece, mai come oggi, la nostra associazione, in specie in Italia dove la sua presenza è così diffusa e radicata, è in grado di mettere in pratica l’abusato slogan «pensare globale, agire locale».
Lavorare per identificare la dimensione (non solo fisica) della propria comunità, per individuarne gli attori, per metterli in relazione tra di loro, per interpretare i bisogni e ricercare le risposte: questo il compito principale delle nostre condotte negli anni a venire. Ognuna potrà così giungere a una diversa sintesi di comunità, costruire in maniera originale la rete di relazioni tra i suoi membri, sintetizzare una sua definizione di economia locale e delle sue regole.
La cosa straordinaria è che la somma di centinaia di esperienze che faremo in Italia (e senz’altro anche nel resto del mondo) diventeranno, in maniera del tutto naturale e consequenziale, la definizione più efficace di economia locale. Il nostro percorso sarà al contempo elaborazione teorica e realizzazione pratica. Lungo il cammino riscriveremo la storia di Slow Food e la sua missione, e troveremo chiari indizi del suo percorso futuro. Se sapremo condividere la nostra esperienza con un numero sempre crescente di persone, questo cammino potrà diventare una vicenda collettiva in grado di superare ampiamente i confini del mondo Slow Food.
Tutti i soci sono invitati a partecipare, non solo attraverso la presenza alle iniziative, ma anche cooperando all’ideazione e alla costruzione di questo nuovo progetto: è un impegno che può diventare entusiasmante e rendere l’adesione a Slow Food ancora più stimolante e gratificante.
Buon viaggio, ci conosceremo da qualche parte sul treno.

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2/12/2007

Il sommario di Slowfood 24

E dunque, si cambia.
Nuova vita per Slowfood a partire dal numero 24, con un ricco sommario di cui vi anticipiamo le sezioni principali.

La storia di copertina: Halal
Pratiche, ricette e divieti: dopo l’indagine sulla cucina kasher, trattata su Slowfood nel 2006, è ora il turno del cibo halal, ossia conforme ai dettami del Corano e della Sunna, sacri testi dell’islam.
Senza pretese di esaustività – ché la religione musulmana ha prodotto culture e usi alimentari estremamente diversificati – affrontiamo un viaggio che interessa Italia, Regno Unito, Algeria, Tunisia, spaziando dall’intervista all’imam della moschea di Centocelle allo studio delle fonti letterarie antiche, dall’epopea di ascesa e decadenza del vino algerino ai colori sgargianti delle trasmissioni televisive in cui furoreggia chef Osama.
Con volontà di conoscere, a partire dal cibo, un mondo abitato da oltre un miliardo e 200 milioni di persone: marea che muove a Occidente tra integrazione e pregiudizio, s’incanala nei carruggi del Vecchio Continente con profumi di kebab e miscela le sue tradizioni gastronomiche a quelle dell’Europa mediterranea da secoli, eppure agita paure, resistenze, incomprensioni figlie di un conflitto in atto, che a periodi alterni sboccia e si nutre d’intolleranze, mistificazioni, disinformazioni.
L'illustrazione è di Daniela Villa.

Il racconto d’autore
È il turno di Marco Bettini, che per Slowfood firma Il nome del coniglio, magistralmente illustrato da Pasquale Todisco (Squaz). Marco Bettini vive e lavora a Bologna. Ha scritto tre romanzi: Pentito (Bollati Boringhieri, 1994), Color sangue (Rizzoli, 2003), Lei è il mio peccato (Rizzoli, 2005) e pubblicato diversi racconti. Appassionato di calcio, gioca come centravanti stanziale nell’area di rigore dell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale degli scrittori. Sta ancora cercando di capire perché i suoi compagni di squadra continuino a ripetergli che, come attaccante, dovrebbe stazionare nell’altra area, quella degli avversari.

Desco Music
Siamo ospiti dell’Enoteca di Slow Food, all'interno del Salone del Gusto, porto di mare in cui ci muoviamo a vista guidati dal navigato Adriano, detto “il maresciallo”. Abbiamo infranto la regola che vuole il musicista sottoposto al nostro terzo grado enogastronomico nel suo habitat naturale. C’è tuttavia una buona ragione per questo: Roy Paci è individuo nomade per vocazione, quindi ci sta l’incontro in campo neutro. Firma Alberto Campo, foto di Alex Astegiano.

Terrestri
Esordisce il progetto dell’agenzia fotografica torinese Pho-To che, nei giorni di Terra Madre ha seguito cinque delegazioni (dal Giappone, dalla Palestina e da Israele, dagli Stati Uniti, dallo Sri Lanka e dalla Romania) nel loro soggiorno in Piemonte.

Report Salone del Gusto/Terra Madre
Alcuni dei nostri inviati raccontano i due eventi torinesi dal loro punto di vista, di giornalisti per la carta stampata o di emittenti televisive. Poppy Burak a colloquio con i delegati di Tagikistan, Afghanistan Georgia, Ossezia, Abkhazia e poi Elena Giovanelli, storica firma della nostra rivista, per l’occasione “volontaria di Terra Madre” assegnata alla comunità delle donne del Mali. Ancora, John Irving invischiato a dipanare le lacune gastro-culturali dei suoi compatrioti e poi a brindare con giornalisti, scrittori e chef nel caffè letterario del Salone e, infine, Nereo Pederzolli, a degustare sulla pista del Lingotto i mitici Tre Bicchieri. Inoltre, una sezione intitolata Voci di cerimonie, è già stata anticipata su questo blog, e la trovate qui.

La rete delle comunità
È la volta del Brasile per un appuntamento ormai classico della nostra rivista. Abbiamo visitato la comunità-presidio dell’umbù nella terra di origine e l'abbiamo reincontrata a Torino, per registrarne e raccoglierne le impressioni.

Arte
Inaugura un nuovo progetto in otto puntate che mira a far risaltare le esperienze dei grandi artisti che hanno fatto del cibo e dei suoi risvolti simbolici e sociali il loro oggetto d’indagine. Gli interventi, di carattere monografico o tematico saranno firmati da studiosi e critici d’arte e avranno il supporto delle immagini dell’archivio fotografico Garghetti che da trent’anni cattura e divulga modi, forme, autori, riti del contemporaneo seguendo con attenzione i protagonisti e le ricerche dell’arte del nostro tempo. Il primo numero è dedicato a Daniel Spoerri.

E infine Slowine…
Che questa volta racconta di Cahors (I see a red wine and I want it painted black) e Carignano del Sulcis (Dal carbone alle vigne), di terroir e di extravergini. Con un racconto di Paola Nano nella sezione Così bevevano, intitolato Memoires e illustrato da Alfredo Dellavalle (Fedo).

Non mancheranno, inoltre, le consuete rubriche di recensioni (libri, film, dischi, teatro), nonché le degustazioni, le osterie e le locande d’Italia, la banca del vino e il vino quotidiano, le rassegne stampa e una splendida tavola finale, a firma Bacillieri (la matita del Napoleone della Bonelli).
(A.M.)

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2/09/2007

Slowfood 24

Dopo un breve interregno di traghettamento (gli ultimi 4 numeri del 2006 sono stati curati nel segno della continuità con Dante Albieri da Stefano Pallaro), dal primo numero del 2007 la rivista sarà affidata a uno studio grafico torinese chiamato Bod'A.
La nuova grafica si propone di migliorare l'estetica, la piacevolezza di consultazione e la leggibilità di Slowfood, accompagnando la biodiversità dei contenuti a un'impaginazione più eclettica, accattivante, contemporanea.

Accompagneremo il restyling grafico di Slowfood a un aggiornamento contenutistico, fermi restando i punti di forza che ne hanno decretato il successo - o perlomeno l'apprezzamento - presso i nostri soci, moltiplicando temi e punti di vista intorno al mondo dell'enogastronomia. E dunque ritroverete: i Presìdi italiani e internazionali raccontati per temi, le comunità di Terra Madre intervistate all'Oval o incontrate a casa loro, le inchieste sui grandi temi dell'alimentare o dell'agricoltura, le recensioni (librarie, musicali, cinematografiche, teatrali, fumettistiche), i racconti d'autore accompagnati dalle matite della nostra valida équipe di illustratori, le anticipazioni e il retroscena filosofico delle manifestazioni Slow Food (Salone del Gusto, Slow Fish e Cheese), le sezioni letterarie (il cibo nella letteratura di genere), le degustazioni (che aumenteranno), gli itinerari del vino o dell'olio e il viaggio nei vitigni minori in Slowine.
Eccovi in anteprima la copertina di Slowfood 24, in uscita a fine febbraio. E fra qualche giorno sarà la volta del sommario.
(A.M.)

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2/01/2007

Pace

Gli scatti a Terra Madre, a migliaia, regalano ogni giorno sorprese.
Ci voleva tempo per vederli tutti e ancora oggi negli scrigni dell’hard disk riposano volti e storie che attendono di essere scovati.
Slowfood 24 (ma anche Slow 56, di cui è imminente l’uscita) continueranno a raccontarvi spaccati di un mondo che crede al cambiamento, che investe sulla biodiversità e che attraverso l’agricoltura o la cucina offre nuove opportunità al palato ma anche una nuova idea di integrazione, tolleranza, pace.
In questi due scatti di Maurizio Milanesio l’abbraccio tutt’altro che metaforico fra due dei mille chef che hanno partecipato al meeting torinese: Basson Moshe, israeliano, e Abu Elhawa Odeh Ali, palestinese.
Un abbraccio che per noi vale più di stelle, cappelli, forchette e celebrazioni su carbonare riviste gourmettistiche in virtù d'inusitati abbinamenti.
(A.M.)

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